La Torre di Pisa. E se avesse ragione lei? Tranquilli, non è il caldo agostano ad aver infierito sulle mie capacità, ma è una riflessione che – se mi darete la possibilità di argomentare – converrete con me ha molto senso, e che nasce dalle pagine di “La donna che uccideva le fate” (Elliot, 224 pp.), il nuovo romanzo di Gesuino Némus.

Nel piccolo paese di Telévras non accade nulla. O quasi. Il comune è ancora commissariato; Gonario Manizàre, presidente della cooperativa dei produttori di latte e uomo dedito alla pratica de s’afferra afferra, ha deciso di buttarsi in politica a suon di cùmbidi; gli allevatori, allo stremo a causa del prezzo del latte di pecora troppo basso, discutono su come ottenere dalla politica qualcosa in più di un gesto di solidarietà, tanto interessato quanto inutile; Gioacchino Dicciòsu – che pure nel ’69 aveva partecipato alla rivolta di Pratobello – ammonisce sull’inutilità della lotta, che “schiavi eravamo allora e quello siamo rimasti”; il maresciallo della benemerita Ettore Tigàssu conta le stecche che lo separano dal 2037, quando finalmente potrà andare in congedo; e quel pazzo bugiardo di Gesuino Némus – il personaggio, non l’autore! –, dopo aver promesso di scrivere un romanzo sul paese e la sua gente, è sparito.

Tutto gravita attorno alla “Pubblica Mescita Cannonau & basta”, agorà di questo microcosmo di nemmeno mille anime nel cuore dell’Ogliastra, prossimo ai Tacchi ma a 25 chilometri dal mare il cui blu si riesce a vedere.

A Telévras, dicevamo, non accade nulla o quasi. Per esempio, accade che il vecchio Digiòsu viene trovato ucciso dal suo servo pastore: qualcuno gli ha sparato alla schiena con un fucile da caccia a canne lisce, e capirete bene quale elemento di indagine sia in un territorio in cui ci sono più fucili che residenti. I beni – e con essi anche i debiti del defunto – dovrebbero passare alla sorella Elvira, unica parente in vita, ritenuta però incapace di intendere e di volere poiché, settant’anni prima, ha affogato nel fiume la propria unica figlia di pochi mesi; una vecchia folle che vive tra un rudere sul greto del fiume e l’abbandonata Gairo Vecchia.

In quella che già si preannuncia una tragedia farsesca, si inserirà l’arrivo dalla Svizzera di un famoso docente universitario di Psicologia Clinica, il professor Marco Venturini, convinto di voler acquistare una casa a un euro in cui trasferirsi per almeno sei mesi l’anno, e convincere i residenti – del paese prima, e della Sardegna poi – della bontà di trasformare la Sardegna nel Ventisettesimo Cantone Svizzero, quello Marittimo.

Il delitto è solo un pretesto per raccontare, con disincanto e voce tagliente i vezzi (e i vizi) di questa nostra amata terra. Mentre sullo sfondo le società estere e continentali tentano, con la carota o il bastone, di accaparrarsi terre per impiantare torri eoliche ed ettari di pannelli fotovoltaici, nel romanzo tutto appare legato a un’automitologia nostalgica e romantica di popolo fiero, orgoglioso, ospitale e generoso, quasi incapace di agire il male se non come conseguenza, forma di punizione comminata dall’uomo poiché della giustizia dei palazzi non ci si può fidare. Ma già Sergio Atzeni scriveva che “A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici”, ammonendoci che il male non arrivava solo da fuori. Così fa Némus: ride e irride, diverte nel senso più etimologico del termine costringendoci, tra una risata e una riflessione dotta, a cambiare punto di vista. Al punto che, alla fine, non sarà più chiaro chi sia, a Telévras, davvero folle… insomma se, in fondo, la Torre di Pisa non abbia ragione lei.

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