Il turismo fa rinascere i fari sardi e la scommessa partita lo scorso giugno con la delibera regionale del "Progetto Fari" prende sempre più forma, per non perdere un patrimonio suggestivo ad alto rischio abbandono e vederlo rivivere nella nuova veste di struttura turistica.

Un'iniziativa che ha precedenti di successo nel mondo, dai fari del Maine negli Usa, a quelli francesi, inglesi e croati, senza dimenticare l'esempio già avviato sull'Isola con lo spettacolare Faro di Capo Spartivento.

In particolare, il progetto riguarda i vecchi fari di Razzoli, Punta Filetto e l’ex stazione di vedetta di Marginetto nell’arcipelago di La Maddalena, e quelle di Capo Ferro a Porto Cervo e Punta Scorno all’Asinara, Capo Sperone (Sant’Antioco), Punta Falcone (Santa Teresa di Gallura), Capo Figari (Golfo Aranci), il faro di Capo d’Orso (Palau) e quello di Capo Comino (Siniscola), l’unico ancora di proprietà dello Stato.

L'abbandono di molti di questi luoghi è avvenuto dopo l'elettrificazione dell'Isola, a inizio anni '60, ma fino ad allora sono stati l'abitazione di una figura particolare oggi ormai dimenticata: quella del fanalista, incaricato di accendere e regolare la vita di queste lanterne del mare fondamentali per i naviganti.

Una vita difficile, segnata da un isolamento forzato dal resto del mondo, fatta eccezione per la visita settimanale dei rimorchiatori per la consegna di alimenti e posta e dei maestri delle Scuole Popolari Speciali, istituiti per offrire un'istruzione ai figli dei fanalisti.

Il faro di Capo Comino

Virgilio Ugazzi è stato uno di loro, inviato a far scuola ai bimbi del faro di Punta Filetto tra il 1961 e il 1962: "Avevo 24 anni, una delle prime esperienze d’insegnamento, ottima per me perché ero abituato a stare sulle isole. In totale avevo quattro bambini, due figli del fanalista e due bimbi di una famiglia di Santa Maria, una pluriclasse in cui insegnavo tutte le materie senza un orario preciso".

Com'era il rapporto con gli allievi?

"Nonostante l'isolamento la vivevano bene, la sera a cena mi chiedevano com’era la vita fuori dall’isola, erano curiosi e rimuginavano su quello che gli insegnavo. Era un tipo di didattica lontana da quella canonica, dove i programmi erano in diretta. Anche io imparavo qualcosa da loro".

Quanto durava la sua permanenza?

"Una settimana, mare permettendo, poi tornavo a La Maddalena chiedendo un passaggio alle barche dei pescatori. A quei tempi ci voleva un'ora e mezza"

E la vita nei fari?

"Tutto sommato era una vita libera, a Santa Maria c'erano comunque altri abitanti e poi allora la mentalità era diversa, non si sentiva così forte il problema dell'isolamento. Del resto di lavoro da fare ce n'era, io conoscevo già il fanalista, che di professione faceva anche il pescatore, e spesso dopo le lezioni lo aiutavo. Mi pagava ad aragoste e da allora non ne ho più mangiate".

Il programma delle scuola dei fari quanto è durato?

"Circa sei anni, dal 1956 al 1962, poi sono diventati automatici e la professione è scomparsa. Tutto era nato su impulso del comando fari e dei fanalisti, per il bisogno di istruire i propri figli senza esser costretti a mandarli lontano. Così il Provveditorato istituì le scuole popolari speciali e reclutò giovani insegnanti come me per quell'esperienza unica".

(Redazione Online/b.m.)
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