“Cara Unione,

leggo con grande interesse, in questi giorni, le discussioni sollevate dalle dichiarazioni delle ragazze della ginnastica ritmica, che parlano in questo sport di un rapporto col cibo non sano.

Quello che mi preme sottolineare è che si tratta di un fenomeno di proporzioni ben più vaste, e che non interessa solo questo sport, non solo chi ambisce ad un posto in Nazionale o nelle competizioni internazionali più prestigiose, ma che affonda le sue radici in una cultura della competizione che talvolta applica metodi che definisco senza timore ‘criminali’ nei confronti della salute, fisica e mentale, dei nostri figli.

Mi spiego meglio: sono padre di un ragazzino di 10 anni che gioca in una squadra di calcio a 7, legata fra l’altro ad un oratorio, di bimbi dai 10 ai 12 anni. Uno sport cui mio figlio si è accostato solo dallo scorso, ma dedicandosi con passione e continuità, partecipando ad ogni allenamento.

Per lui, purtroppo, la convocazione per la tanto agognata partita di campionato del weekend, non è mai arrivata. E alla mia richiesta di chiarimento, all’ennesima mancata convocazione, ecco la motivazione dell’allenatore: ‘Suo figlio fatica in campo, è molto in sovrappeso, avete mai pensato di rivolgervi a un nutrizionista?’.

Nella realtà mio figlio, come ho provato a spiegato, soffre di un problema metabolico per cui da anni siamo in cura con la nostra pediatra di fiducia, e proprio da lei è arrivato il suggerimento a praticare con continuità un’attività sportiva. E poter giocare, anche solo qualche volta, potrebbe essere per lui un ulteriore sprone a fare meglio.

Ma purtroppo, come gentilmente mi è stato spiegato, ai campionati, anche se organizzati dall’oratorio, si partecipa per vincere, e se non sei bravo come gli altri stai a casa.

Tutto comprensibile, ma mi chiedo se siano questi i valori che lo sport deve trasmettere. 

Grazie dell’attenzione”.

C.G.

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