È finito, ma continua. Il festival di Sanremo ha una vischiosità che gli consente di sopravvivere a sé stesso. Sanremo non finisce mai, è un chiasso musicale perpetuo. Chiusa un’edizione se ne apre subito un’altra, della quale si annunciano le meraviglie. È la festa delle feste, la dea madre di tutte le solennità della Repubblica. L’Italia vi si riconosce più che nelle ricorrenze religiose, più che nelle celebrazioni degli anniversari della storia patria. Da un febbraio all’altro siamo perseguitati da messaggi festivalieri centellinati dal pulpito televisivo. Da cinque anni imperversa il profeta Amadeus, un presentatore che per l’occasione si trasforma in guitto, mostra la lingua, saltella da un lato all’altro del teleschermo. Con l’aria furba di un disvelatore di misteri annuncia sorprese, sottende segreti e retroscena. Per un quinquennio ci ha martellato i timpani e non solo quelli. Ha invaso ogni telegiornale comparendovi in apertura, chiusura e nel mezzo. Il suo comportamento persecutorio è identico a quello di uno stalker, che preda di un’ossessione affligge la sua vittima. Il suo assillo è stabilire, ogni volta, nuovi record dell’indice d’ascolto. Che è cosa ben diversa dall’indice di gradimento. (Una proposta: per immortalare Amadeus si inserisca tra i reati il telestalking. In italiano chiamiamolo telepersecuzione).

© Riproduzione riservata