D opo l’elezione di Robert Prevost al soglio pontificio chiunque abbia letto un quotidiano o visto un telegiornale sa chi era il papa che per primo prese il nome di Leone e perché è passato alla storia come “Magno”. Lo ha rievocato alcuni giorni fa l’alto prelato ucraino Sviatoslav Shevchuk in un’intervista. Il quotidiano “Domani” ne ha riassunto il contenuto con un titolo icastico: «Il vescovo di Kiev a Leone XIV: fermi Attila». Tra le prime frasi pronunciate dalla loggia di San Pietro alla folla plaudente dei fedeli, Leone XIV ha invocato, riferendosi alle guerre in corso, una «pace disarmata e disarmante». Come non vedere in queste parole la figura di Leone I che, “disarmato”, con ieratica forza e la Croce in mano affrontò nell’anno 452 il terribile re degli Unni? Il comportamento di quel papa fu sicuramente “disarmante”: tanto da placare il furore del condottiero barbaro già pronto a invadere l’Italia. Con parole forti e intemerate Leone I lo indusse a ritirare le truppe e a risparmiare Roma dalla minacciata distruzione. Fu, quello, un atto di diplomazia religiosa in un momento di crisi dell’Impero Romano d’Occidente. Anche oggi l’Occidente è in crisi. Anche oggi la Chiesa ha al suo vertice un cuor di Leone. Che, se i simboli hanno un significato e sono una premonizione, sembra voler contribuire a bloccare il declino della nostra cultura cristiana.

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