C i siamo presto abituati ad avere una donna premier. Non ci facciamo più caso. La trattiamo, mi riferisco a Giorgia Meloni, come trattammo i suoi omologhi del passato, tutti maschi, ai quali non abbiamo mai lesinato critiche e, talvolta, insulti, se appartenenti a parti politiche da noi avversate. Non voglio dire dei social, taverne del web, discariche in cui confluiscono calunnie, turpiloquio, ingiurie, insolenze, irrisioni. Dico dei media, che pur ricorrendo a toni quasi sempre civili, non risparmiano a Meloni accuse infondate e insinuazioni grevi. Fino ad attribuire alla sua azione di governo una deriva autoritaria, assurda nei confronti di chi, come l’attuale esecutivo, è allineato alla Nato, all’Ue, agli Usa. La si biasima perché troppo vicina a Trump, presidente repubblicano; nessuna obiezione, invece, quando si accordava con Biden, presidente democratico. Nessun governo italiano è stato mai antiamericano: è una scelta di campo tra est e ovest, tra oriente e occidente. Fu filoamericano perfino quello di D’Alema, che per compiacere a Clinton portò l’Italia in guerra contro la Serbia. Chiedere a Mattarella, che di quel governo fu ministro e vicepresidente. La si ritenne, allora, una scelta giusta. Oggi, invece, si chiede a Meloni di scusarsi di ciò che di brutto e cattivo accade nel mondo. Sei amica di Trump? Allora, per effetto domino, sei sua complice.

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