Sapevano. E sono morti. La vicenda dei cosiddetti Sarajevo Safari — presunti viaggi organizzati durante l’assedio di Sarajevo, tra il 1993 e il 1995, per permettere a stranieri facoltosi di sparare sui civili per “divertimento” — si arricchisce di nuovi, inquietanti elementi. Il giornalista investigativo croato Domagoj Margetic ha infatti sollevato pubblicamente il sospetto che tre testimoni diretti della vicenda (Slavko Aleksic, Branislav Gavrilovic Brnet e Vasili Vidovic Vasket) siano morti in circostanze anomale, in un arco di tempo ristretto, dopo l’avvio dell’inchiesta giudiziaria in Italia.

In una dichiarazione diffusa sui social media, Margetic parla apertamente di una “operazione di pulizia” finalizzata a eliminare testimoni scomodi che sarebbero stati a conoscenza diretta del sistema che avrebbe permesso a cecchini stranieri di colpire deliberatamente la popolazione civile di Sarajevo negli anni Novanta.

Il documentario

Il caso Sarajevo Safari è tornato al centro dell’attenzione internazionale negli ultimi anni grazie a un lavoro di ricostruzione giornalistica e documentaria culminato nel film Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Zupanič, trasmesso da Al Jazeera Balkans nel 2023. Il documentario raccoglie testimonianze di ex membri dei servizi, soldati e civili che descrivono l’arrivo di “turisti della guerra” disposti a pagare ingenti somme per sparare contro bambini, donne e anziani dalla zona controllata dall’esercito serbo-bosniaco.

L’inchiesta
Su questo sfondo si inserisce l’inchiesta aperta dalla Procura di Milano, a seguito di un esposto presentato dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni. I magistrati italiani stanno cercando di identificare cittadini italiani e stranieri che, durante l’assedio di Sarajevo, avrebbero preso parte a queste spedizioni di morte. I “cecchini del weekend” italiani, perlopiù simpatizzanti di estrema destra con la passione per le armi, si radunavano a Trieste e venivano portati poi sulle colline attorno a Sarajevo dove, dopo aver pagato le milizie serbo-bosniache di Radovan Karadzic, potevano sparare sulla popolazione della città assediata. L'intelligence bosniaca a fine 1993 avrebbe avvertito la locale sede del Sismi della presenza di almeno 5 italiani, accompagnati sulle colline intorno a Sarajevo, accompagnati per sparare ai civili. Nel fascicolo c'è anche una relazione su questi «ricchi stranieri amanti di imprese disumane» inviata alla Procura di Milano dall'ex sindaca di Sarajevo Benjamina Karic.

In questo contesto Margetic un mese fa ha depositato a Milano una denuncia che chiama in causa direttamente il presidente serbo Aleksandar Vučić, accusandolo di una presunta presenza nell’ambito dei Sarajevo Safari.

Accuse che Vučić ha respinto con fermezza, definendole infondate e annunciando azioni legali contro i media internazionali che hanno rilanciato il suo presunto coinvolgimento. Il presidente serbo ha più volte ribadito di non avere alcun legame con la vicenda, parlando di una campagna diffamatoria orchestrata ai suoi danni.

Sospetti e ombre

Le affermazioni di Margetic sulle morti dei tre testimoni non sono al momento supportate da riscontri giudiziari ufficiali ma aggiungono un elemento di forte tensione a una storia già carica di ombre. Secondo il giornalista croato, persone vicine alle vittime sostengono che Slavko Aleksic, Branislav Gavrilovic Brnet e Vasili Vidovic Vasket fossero in buona salute e che non vi fossero segnali premonitori tali da spiegare decessi ravvicinati e improvvisi.

Se confermati, questi sospetti aprirebbero uno scenario ancora più grave, suggerendo che il passato della guerra in Bosnia non sia affatto sepolto e che esistano tuttora interessi potenti pronti a impedire che la verità emerga. Per ora, tuttavia, il terreno resta quello delle accuse e delle contro-accuse, mentre spetta alla magistratura italiana il compito di verificare i fatti e accertare eventuali responsabilità penali.

A trent’anni dall’assedio di Sarajevo, la ricerca della verità su uno dei capitoli più oscuri del conflitto balcanico continua a dividere, inquietare e riaprire ferite mai rimarginate.

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