Il pastore di Ovodda modello su Vogue
Agosto 1976, Toni Mattu e il suo abito di velluto nelle pagine della bibbia della modaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
«Vog? E ite est?». Giovanni Antonio Mattu scoprì di essere finito sulle cronache planetarie della moda esattamente sei anni dopo aver posato per un fotografo continentale nel cortile di casa. Per un lustro aveva aspettato che «quel giovane» (il famosissimo Alfa Castaldi) gli spedisse la foto promessa, poi ogniqualvolta si toccava l’argomento cominciò a dare solo una risposta: «Ah, ma non mi fregano più». Sicché, quando nel 1982 la figlia Rosella, studentessa universitaria a Cagliari, gli portò la rivista di moda dell’agosto 1976, lui gettò uno sguardo di sottecchi sull’articolo e, per cambiare discorso, se la cavò con una battuta. Quella foto su Vogue non gli cambiò la vita, né intaccò minimamente l’orizzonte vasto e definito del suo mondo di pastore barbaricino. Toni Mattu di Ovodda, padre di famiglia classe 1922, allevatore di pecore e capre fin da bambino, era diventato modello per caso dentro le pagine patinate della bibbia della moda - ma lui, di carattere riservato, liquidò tutto con un’alzata di spalle.
Vent’anni prima che i Novanta magnificassero il velluto sardo, l’eleganza agricola dei pastori barbaricini si era conquistata uno spazio tra i servizi dedicati alle collezioni dell’haute couture e le pagine pubblicitarie di abiti che costavano quanto un gregge di cento pecore. Per l’allevatore di Ovodda non c’era da farla tanto lunga: l’abito buono era quello della festa e dei funerali; ma per i redattori e il fotografo di Vogue non era altro che una delle icone del passato cui si rifacevano a quel tempo i giovani alla moda. Nella metà degli anni Settanta, infatti - mentre la Guerra Fredda diventava massimamente acida, le grandi potenze facevano la corsa agli armamenti e il mondo sentiva i contraccolpi della crisi petrolifera - la moda divenne lo strumento più democratico per manifestare le opinioni. Un’intera generazione era divisa tra le posizioni più estremiste del terrorismo e le barricate assai meno pericolose del flower-power. Delusa da un presente fatto di guerre e ingiustizie, la moda battezzò lo stile punk ma per il resto si rifugiò nel passato. Una tendenza rétro che partiva dai giovani e arrivava fino alle passerelle delle grandi maison. I ragazzi saccheggiavano le bancarelle dell’usato; gli stilisti annusavano gli umori della strada e riproponevano le camicette di inizio Novecento, i tessuti patchwork, i capi fatti a maglia e all’uncinetto. Da Sonia Rykiel a Vivien Westwood, da Kenzo a Yves Saint Laurent (che per la collezione autunno-inverno ‘76 trasse ispirazione dai costumi tradizionali delle donne russe).
Giovanni Antonio Mattu era ovviamente ignaro del fatto che il suo abito buono fosse al centro di una grande rivoluzione della moda. Come tutti i pastori barbaricini si preoccupava solo del bene della famiglia e della pancia del gregge, sicché non poteva immaginare che il vestito di velluto marron che si era fatto cucire da un sarto di Sarule per la festa dei cent’anni di una zia, potesse avere un qualche interesse per i continentali e i giornalisti. «Quando quel fotografo gli chiese se poteva scattargli una foto, non si stupì più di tanto perché qui a Ovodda arrivavano e arrivano tanti forestieri appassionati di tradizioni sarde». Antropologa con un particolare interesse per la storia e la cultura dell’Isola, un’esperienza in Rai Sardegna e come aiuto regista di Giovanni Columbu, Rosella Mattu, 65 anni, è la figlia di Giovanni Antonio, la ragazza che nel 1982 portò a casa la vecchia copia di L’Uomo Vogue con la fotografia che immortalava il capofamiglia.
Lui è morto nel 1991, ma il suo ritratto formato gigante è appeso a una parete del soggiorno, accanto ai quadri degli antenati. «Nel 1982 studiavo a Cagliari, e un giorno, parlando con una collega, le dissi che mio padre era stato fotografato da un reporter del giornale di moda e che purtroppo il servizio non era mai uscito. “Come no? Io l’ho visto, ma anni fa”, rispose. Nella sua famiglia c’era qualcuno proprietario di una boutique, per questo lei leggeva tutti i giornali del settore. Finì che mi portò la rivista e, quando tornai a Ovodda, la feci vedere a babbo». In quel periodo, racconta Rosella, «stavamo lavorando sul set del docufilm “Visos” di Giovanni Columbu, e mio padre interpretava uno dei personaggi, appunto il pastore di Ovodda. Quando gli mostrai il giornale, la sua foto su una pagina e nella pagina affianco il ritratto di un pastore di Sarule, lui non fece una piega, disse soltanto: “Ah, questo non è Giovanni Piredda di Sarule?”. Era fatto così, un uomo riservatissimo».
Nella casa di via Gennargentu, il vestito di velluto marron è stato conservato come una reliquia, e adesso è andato in eredità all’unico nipote maschio che, oltretutto, porta il nome del nonno. La giacca con la martingala, i pantaloni a s’isporta (da cavallerizzo), fatti per essere portati con i gambali. Nell’ampio servizio dal titolo “Velluto da roccia e stivali da caccia in Sardegna” (un reportage che documenta anche la vita dei pastori barbaricini, con i ritratti di uomini e ragazzi di Oniferi, Sarule, Meana Sardo) la foto di Toni Mattu - che sta in piedi appoggiato alla vecchia scala di granito - è accostata a quella di uno studente continentale nella stessa posa, uguali calzoni, medesimi calzari. “Casualmente, ma tipicamente vestiti alla stessa maniera un vecchio agricoltore sardo e un giovane fiorentino: perfetti entrambi - è la didascalia - nel loro vestirsi secondo vecchi e nuovi schemi”. «È forse il posto dove sopravvivono le tradizioni e gli usi antichi - scrive Maddalena Sisto -; senz’altro è la regione più isolata d’Italia: in Sardegna è ancora possibile trovare chi tinge le camicie coi colori vegetali (il più bello è l’inimitabile giallo che si ottiene con lo zafferano) e dappertutto in giro non è difficile incontrare uomini vestiti impeccabilmente in giacca e pantaloni sbuffanti di velluto infilati dentro gli stivali rigidi, quasi una divisa che si porta tanto la domenica come la sera al bar sulla piazza e tanto nei pascoli sui monti quanto per andare a cavallo».