Il curriculum di Brusca: 25 anni di carcere per un centinaio di omicidi. Ma Saviano dice una cosa...
Lo chiamavano “u verru”, il porco. O scannacristiani, tanta era la ferocia. Il caso del mafioso che ha collaborato con la giustizia e adesso si è guadagnato definitivamente la libertà, malgrado tuttoPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
La libertà di Giovanni Brusca, il mafioso che ha azionato il telecomando di Capaci, dove 300 chili di tritolo consegnarono alla morte il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e a tre uomini della scorta, è uscito dal carcere. Di Brusca conosciamo tutti una foto, quella della cattura il 20 maggio del 1996: le braccia dietro la schiena tenute dalle manette e due poliziotti col volto coperto che lo tengono stretto. Lui è decisamente in carne, camicia in jeans e barba. Anche cercando sul web, ci sono varianti di giornata sul clamoroso arresto di ventinove anni fa, ma è sostanzialmente solo quella l’immagine nota di questo siciliano classe 1957, soprannominato u verru, il porco, o scannacristiani, tanta è stata la ferocia dimostrata.
Brusca era in libertà vigilata dal 2021, dopo venticinque anni di carcere. Adesso anche quel debito con la giustizia è concluso e il mafioso (forse si resta tali per tutta la vita) non ha più alcun obbligo. Rimarrà sotto protezione e continuerà a vivere sotto falsa identità, ma senza più alcuna limitazione. Se così non fosse, ovvero se la copertura della sua identità non venisse garantita anche visivamente, l’uomo sarebbe già passato a miglior vita, visto la sua collaborazione con le Procure siciliane e non solo.
Fatta questa premessa, di Brusca in questi giorni tante persone hanno fatto sostanzialmente due cose, esattamente in questo ordine: prima sono andate a cercare gli errori commessi dal siciliano di San Giuseppe Jato, sessantadue chilometri di Palermo, poi hanno cercato un qualche pezzo di Roberto Saviano che di criminalità organizzata resta un preziosissimo narratore.
Sulle pagine del Corriere della Sera, lo scrittore di Napoli ha spiegato: «La libertà di Giovanni Brusca non rappresenta un inciampo della giustizia, un errore burocratico o una falla. Al contrario, Giovanni Brusca è in libertà secondo la legge. È doloroso, ma ci si deve rendere conto che lo Stato, e gli Stati in generale, non solo l’Italia, sono estremamente fragili di fronte al crimine organizzato. Senza collaboratori, non si otterrebbe alcun risultato». E ancora: «Si può aggiungere che, senza collaboratori, le spese per il contrasto sarebbero quadruple o quintuple, poiché sarebbero richiesti molti più investigatori, intercettazioni e un lavoro considerevolmente maggiore. Il collaboratore di giustizia, quando è efficiente, permette di ammortizzare i costi e circoscrivere gli impegni». Andando avanti nell’articolo: «Brusca ha permesso di giungere a queste interpretazioni, sebbene non direttamente attraverso rivelazioni complete. La sua libertà è considerata uno scempio morale in un Paese in cui molti innocenti restano in carcere per mancanza di adeguati strumenti di difesa. La lentezza della giustizia italiana è, infatti, tra le peggiori del mondo occidentale. In un contesto del genere – continua Saviano -, la libertà di Brusca risulta disgustosa. Dolorosa, ma mostra anche che è il prezzo da pagare per ottenere la verità. E se consideriamo questa prospettiva, la libertà di Brusca è la prova che le mafie non sono imbattibili e che la strada è ancora lunga, lunghissima».
Saviano è titolatissimo per parlare, quindi, ragionevolmente, bisogna dargli ragione. Perché senza Brusca nessuno avrebbe mai saputo che Cosa Nostra aveva tre correnti: quella stragista di Totò Riina, quella pacifista di Bernardo Provenzano e l’attendista di Matteo Messina Denaro. Ovvero, Riina uccideva. Punto. Provenzano, invece, sosteneva che «i poliziotti fossero “comprabili”, i giudici “avvicinabili” e i giornali “influenzabili”». Per Messina Denaro, è la terza via, la mafia doveva «sfruttare il potenziale intimidatorio e militare, ma al contempo beneficiare della linea pacifista di Provenzano», ha sottolineato ancora Saviano.
L’analisi è perfetta. Poi umanamente fa ribrezzo pensare che sia libero – e qui veniamo al curriculum – un uomo a cui sono attribuiti un centinaio di omicidi. Tra cui quello di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, strangolato e sciolto nell'acido quando aveva quindici anni. Non si possono nemmeno non scrivere, ogni volta che se ne parla, i nomi delle vittime di Capaci. Falcone morì insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Ma Brusca è vivo. E adesso anche libero.