Dopo un iter durato sette anni, a luglio finalmente il verdetto sarà sciolto e le domus de janas potrebbero entrare nel registro Unesco del Patrimonio mondiale dell’Umanità. Un riconoscimento che indubbiamente darebbe slancio alla ribalta internazionale di questi straordinari monumenti funebri preistorici, soprattutto adesso che la Sardegna (è il progetto dell’assessorato regionale al Turismo guidato da Franco Cuccureddu) punta a diventare una destinazione del turismo culturale. Il dossier sottoposto al Comitato del patrimonio Unesco dai promotori (col Cesim, Centro studi Identità e Memoria, la Regione e una rete di 37 Comuni con Alghero capofila) racconta anche del radicamento delle storie legate a questi monumenti nella cultura popolare dell’Isola.

Le fate della tradizione sarda abitano nelle grotte, nei nuraghi, nei castelli (come quello di Monte Oe tra Pozzomaggiore e Torralba), ma soprattutto nelle domus de janas, le stanze scavate nella roccia che in realtà erano tombe, camere funerarie risalenti al periodo prenuragico. In Sardegna se ne contano oltre tremila, alcune molto semplici, altre monumentali: vestigia di una civiltà - chiamata Cultura di Ozieri perché le testimonianze più importanti sono state recuperate nella grotta di San Michele, vicino alla città del Logudoro - che segnò l’avvento della società rurale e contadina (con la nascita di piccoli villaggi), pacifica e dedita al culto dei defunti. Un culto fondato sulla rinascita dei morti, per questo i sepolcri - che venivano scavati nella roccia - avevano la stessa architettura delle case: stanze, focolare, nicchie.

Accanto alle domus più maestose - come quelle di Anghelu Ruiu ad Alghero e di Montessu a Santadi -, molte di più sono le sepolture semplici e piccole. «Fu proprio questa caratteristica ad animare la fantasia popolare che generò la figura delle janas, donne bellissime e dotate di magici poteri, considerate come sacerdotesse oracolari», ha spiegato Dolores Turchi, studiosa di tradizioni popolari. «In tanti paesi sono descritte come esseri minuscoli; in altri, invece, come fanciulle normali e di straordinaria avvenenza». Erano le fattezze delle fate che abitavano le domus dei centri del Goceano; e della jana del pozzo sacro di Santa Cristina. Minuscole, suscettibili, permalose e talvolta vendicative.
A Oniferi, si racconta, le fate uscivano all’imbrunire e solo i più fortunati potevano scorgerle mentre tessevano le loro tele preziose. A Oliena, invece, si dice che furono proprio loro, le janas, a insegnare alle ragazze del paese l’arte del ricamo. A Siligo abitavano vicino a Funtana Pinta ed erano talmente gelose della loro acqua che, quando il sindaco decise di incanalarla, con un sortilegio la tramutarono in una pozza piena di vermi. E a Nuragus, le donne ritiravano sempre prima dell’imbrunire i panni stesi per evitare che le fate facessero un incantesimo.

Non c’è paese in Sardegna che non conservi memoria delle leggende popolate dalle fanciulle di bellezza ammaliante che custodivano i segreti della vita degli uomini e avevano il potere di segnarne il destino. Sono le storie tramandate dalle nonne, che a loro volta le hanno ascoltate da bambine, in un ciclo infinito che regala sempre nuova vita alle favole che arrivano dalla notte dei tempi. Così le vecchie sarde non sono diverse dalla Mother Goose inglese e dalla Ma mere l’Oie della cultura francese, le narratrici custodi della tradizione, quelle che poi - nonostante qualche aggiustamento qui e là - hanno permesso a Charles Perrault e ai fratelli Grimm di raccogliere e pubblicare finalmente le più belle fiabe europee.
 

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