Bruno Vargiu, il carpentiere dei quattro mondi
Svizzera, Liberia, Ghana, Venezuela, Brasile, Ecuador e Turchia le patrie dell’operaio di LanuseiPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
È in grado di raccontare quattro continenti. Dall’angolo visuale di cantieri che definire maxi sarebbe riduttivo. «Meglio parlare di città cantiere, nel senso che noi, lavoratori di Impregilo, eravamo tanti da abitare una cittadella, con tanto di servizi». Carpentiere di Lanusei, 93 anni compiuti lo scorso dicembre, dopo aver girato il mondo intero Bruno Vargiu è una memoria vivente della grande industria italiana nel mondo. E lo dice con una lucidità straordinaria. Nella consapevolezza di essere testimone di un secolo vissuto tra due oceani. Tra gioie e sacrifici («arrivavamo a lavorare anche 3000 metri cubi di calcestruzzo in una notte»).
Costruisce dighe, Bruno Vargiu. La prima, quella del Bau Muggeris, sull’altopiano di Villanova Strisaili, nella sua Ogliastra. Il datore di lavoro è Lodigiani, azienda nata cresciuta e progredita all’insegna dello slogan “dai ponti alle dighe”. Il colosso delle costruzioni paga regolarmente, altri no. Ecco perché a Bruno Vargiu Lanusei risulta stretto, soprattutto dal punto di vista economico. «Dunque decido di fare ciò che molti altri facevano. Emigrare. Prima vado a lavorare a Ginevra, dal 1957 al 1962 come muratore. Poi leggo, in Svizzera, un annuncio di lavoro. La Vianini voleva gente da mandare in Liberia, mica dietro l’angolo».
Lui parte, senza indugi. L’esperienza in Africa, la prima di una lunga serie che maturerà dal continente nero all’Asia e all’America Latina, restituisce il lavoratore infaticabile che era partito dopo aver letto l’annuncio sul giornale. Appena torna dalla Liberia, altra chiamata da Impregilo, il consorzio di imprese (Girola, Impresit, Lodigiani, Torno) formato nel 1955 per la costruzione della diga di Kariba, fra lo Zambia e lo Zimbabwe. Bruno Vargiu parte in Ghana, Con lui un altro muratore di Lanusei, Romano Dessì. «Mi dicevo: starò in Africa ora. Manco per idea. Dal Ghana io e altri quaranta dobbiamo fare le valigie e attraversare l’Atlantico. Ci avevano mandato in Venezuela in prestito alla Kaiser. Per costruire dighe e ponti». Di rientro dal Sudamerica fa due anni e mezzo, da muratore, a Lanusei. E poi riparte. Destinazione Turchia. Il carpentiere giramondo fermarsi non può. Impregilo ha bisogno della sua professionalità, unita a quella di tanti altri sardi. La sua destinazione è nuovamente l’America. Va a lavorare in Colombia, poi in Brasile dove conosce la moglie («mica soltanto io, quattro sardi e venticinque italiani miei colleghi all’epoca si sono sposati in Brasile»). Torna in Colombia, poi ancora in Brasile. «Avanti e indietro in America Latina». Non poteva finire là. Impregilo ha necessità di impiegare Bruno Vargiu in Nigeria. A voler contare quante volte il carpentiere di Lanusei ha attraversato l’Atlantico si perde il conto. Anche perché il ritorno dall’altra parte dell’Oceano non tarderà ad arrivare. La destinazione successiva si chiama Ecuador. «E da qui mi mandano in Perù». Il rientro in Italia lo porta a Napoli. «Ci ho lavorato per tre mesi, non per stata la destinazione migliore». Un infortunio lo riporta a casa ma giusto il tempo di una convalescenza. «Il carpentiere giramondo deve chiudere nuovamente la valigia. Si torna in Ghana. Per altri tre anni. «Poi sono caduto da una tettoia». E così è arrivata l’età della pensione.
I ricordi si accavallano, la memoria vola a quegli anni in cui il grande costruttore italiano realizzava opere mastodontiche in tutto il mondo. Più di ogni altro luogo a Bruno Vargiu è rimasta nel cuore la Turchia. In particolare la città di Elazig, la più ordinata dell’Anatolia. «È stato il paese più affine al nostro in cui ho lavorato». Anche dal punto di vista della cucina. «Facevano il pistoccu, buono come il nostro». Caccia e pesca erano le sue passioni, esercitate ovunque sia stato. «Il bello, in Brasile, era pescare con un amo a tre ganci».
Non è mai mancato il senso di appartenenza. Sentirsi italiani dentro, anche Oltreoceano. «Sempre in Brasile noi lavoratori di Impregilo avevamo praticamente dato vita a una città. Eravamo quindicimila, familiari compresi». Giramondo ma soprattutto lavoratori infaticabili. Uno dei migliori emblemi del made in Italy nel mondo.