Quasi un giorno al Pronto soccorso in attesa di una visita e di una diagnosi, che – alla fine – non c’è stata. È successo a una donna di 80 anni, giunta al Santissima Trinità di Cagliari lunedì scorso. L’incubo dell’anziana nella lettera della figlia, scritta alla nostra redazione, che riportiamo integralmente:

«Niente di nuovo per chi è costrett* a frequentare (suo malgrado) gli ospedali. Per fortuna però forse lo è per altri più fortunati che degli ospedali non hanno bisogno. Lunedì di delirio al Pronto soccorso di Is Mirrionis. Donna di 80 anni, da più di un mese con un problema di salute, trattato a casa senza alcun miglioramento, contatta il 118 su indicazione del medico di famiglia. Arriva l'ambulanza e dopo aver presentato la situazione al personale la donna decide di non accettare il trasferimento al policlinico (la cui attesa secondo l'applicazione regionale sui pronto soccorso era stimata di >6 ore) e di andare autonomamente a Is Mirrionis (tempo di attesa 2 ore e mezzo). Arriva alle 11.30, pre-triage con tampone Covid. Risultato negativo quindi "abile" alla chiamata dal triage. Ore 12:30 triage. Dopo 8 ore accomodate nelle sedie della sala d'aspetto e dopo vari solleciti alle ore 20:00 ci chiamano per la consulenza medica. 

Dentro si apre un mondo di caos e sofferenza: letti e barelle lungo i muri del corridoio, sale occupate da letti, poltrone e sedie a rotelle su cui di volta in volta vengono fatti accomodare i pazienti che passati dalla sala d'aspetto, sono in attesa per essere visitati, ricevere le cure, essere trasferiti nei reparti per le consulenze. Entriamo per il colloquio con la dottoressa di turno. La prima parte dura circa 10 minuti e prevede una descrizione delle problematiche e le possibili soluzioni. Qualche interruzione da parte di oss e infermieri, qualche telefonata, qualche problema (smarrimento di una cartella clinica nel trasferimento di un paziente dal pronto soccorso al reparto). Poi la visita viene interrotta: cambio di turno, arriva la nuova dottoressa. Altre domande, qualche interruzione per uso del cellulare e consulenze con oss e infermieri. Fanno sdraiare la paziente e le inseriscono la cannula nel braccio per i prelievi di routine. 

Altra interruzione, arriva il tecnico per il cambio delle lampade non funzionanti: il personale medico esce nel corridoio, la paziente rimane sdraiata. Fuori risate, battute, barzellette senza nessun problema, davanti ai pazienti e accompagnatori. 20 minuti dopo il personale rientra nell'ambulatorio dove era rimasta la donna, di 80 anni, sola, in attesa della visita che però non verrà fatta. Dopo 10 minuti la paziente esce e viene condotta in una stanza dove ci sono 8 postazioni tra poltrone e sedie a rotelle. Quasi tutte occupate. Qui si somministrano gli antidolorifici e si attende di essere trasferiti nei reparti per le consulenze, ed è qui che si assiste al meglio dell'esperienza vissuta. Ingenue nel pensare che la sala d'attesa fosse il peggio che poteva capitarci. 

Continui arrivi di persone sofferenti, quasi tutte sole, alcune con disagio mentale dovuto magari a problematiche preesistenti, o allo stato di  sofferenza, o all'età. Poco personale e non sempre all'altezza nella gestione della complessità di un luogo che esiste in quanto luogo di dolore, di malattia, dove chi ci entra è oggettivamente in uno stato di debolezza. Non si può lavorare in questi luoghi solo schermandosi, gestire il dolore altrui senza farsi male non può generare indifferenza e superficialità. Passa qualche ora. Verso mezzanotte consulenza in gastroenterologia. Trasferimento con sedia a rotelle al piano superiore dello stesso caseggiato. Il colloquio con il medico dura in tutto una quindicina di minuti comprese le pause e il tempo per mettere per iscritto quanto ipotizzato. Nessuna visita medica solo indicazioni a voce. Rientro al pronto soccorso nella sala poltrone. 

Ritroviamo le stesse facce e qualcuno nuova. Anche nel corridoio qualcuno è nuovo e qualche letto è vuoto. Le ore sono scandite dalla successione di eventi sconcertanti. Ho visto operatori deridere i pazienti non del tutto in sé e lucidi, sottovalutare il loro malessere fino ad ignorare ripetutamente le loro lamentele, ho visto disattenzione  davanti a malati che tentavano la fuga dai loro letti, ho visto svenire e cadere a peso morto un paziente lontano dagli occhi di chi avrebbe dovuto averne cura, ho visto cercare ripetutamente un paziente sparito al rientro della consulenza in reparto, ho sentito dare diagnosi nel corridoio "potrebbe essere una pancreatite" e dopo qualche ora "non è una pancreatite".

Ho visto accompagnatori e malati sostituirsi al personale e intervenire a sostegno di chi più fragile non avrebbe potuto contrastare ulteriori difficoltà (come avere una coperta, un pò d'acqua, un cavo per ricaricare il cellulare, coprirli perché privi di vestiti idonei e impossibilitati a farlo). Ho visto personale serio, gentile, accudente, comprensivo, simpatico ma esageratamente sottostimato per la complessità della situazione. Passano le ore. Verso le 4:30 consulenza agli infettivi. Trasferimento della paziente in ambulanza, io raggiungo il posto a piedi. La dottoressa di turno legge la documentazione e ascolta i problemi che ci hanno portate in ospedale alle 11:30 del mattino del giorno prima. Fa ipotesi ma soprattutto visita finalmente la paziente. La fa sdraiare sul lettino e la tocca, la palpa, chiede, osculta, suggerisce soluzioni. 

Dopo circa mezz'ora dobbiamo tornare al pronto soccorso, ci saluta e ci dice che farà chiamare l'ambulanza per il trasferimento. Aspettiamo, aspettiamo, mi affaccio al corridoio e non vedo nessuno. Vado a cercare il personale per avere notizie ma niente. Dopo 50 minuti spingo la carrozzina verso l'ascensore e prendo la via verso il pronto soccorso. Sono le 6, ci sono 17 gradi e fa freddo per chi come noi indossa vestiti adatti alle 11:00 del mattino. Arrivate al pronto soccorso troviamo diversi pazienti nuovi, qualcuno pronto per le dimissioni e soprattutto l'autorizzazione a lasciare il luogo che ci ha inghiottite per 20 ore. Mentre tolgono la cannula dal braccio dell'anziana donna distrutta dalla malattia e dall'esperienza e le consegnano il foglio delle dimissioni vado a recuperare la macchina. Al rientro la trovo fuori a braccetto con un infermiere che non ha voluto lasciarla sola. Bisogna sempre trovare del bello nelle esperienze, anche in questa ce n'è stato ma davvero troppo poco.

Concludo con una riflessione. Una società civile dovrebbe dirsi tale in quanto si prende cura dei più deboli, dei malati, degli anziani. Quello che ho visto purtroppo è il contrario. PS. Dimissioni senza diagnosi e senza una cura, solo ulteriori analisi. Prevedo visite a pagamento bypassando la sanità pubblica. La sanità pubblica forse è morta e non di morte naturale, ma dagli interessi privati. Con lei moriranno i fragili».

Stefania Dessalvi 

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