La censura, il moralismo, la rarissima arte di non prendersi troppo sul serio e la xenofobia nelle piazze italiane. A pochi giorni dall’arrivo sugli scaffali con “Aria di famiglia” (Mondadori), lo scrittore Alessandro Piperno – classe 1972, l’autore di “Con le peggiori intenzioni” e “Inseparabili”, già vincitore del Premio Strega e Campiello Opera Prima, nonché direttore della collana editoriale I Meridiani – firma un romanzo brillante e caustico, ilare e dannatamente contemporaneo, capace di far convergere sulla pagina il clima bigotto del mondo editoriale, ormai ciecamente ossequioso nei confronti del clima woke e tutte le contraddizioni del politicamente corretto. Al centro dell’intreccio c’è la vicenda del professor Sacerdoti, un docente universitario di mezza età, un uomo colto e misantropo, travolto dalla cancel culture, messo all’indice in facoltà a colpi di post, facendone un’icona del peggior machismo. Ma è solo l’inizio. Poco dopo, in seguito alla scomparsa di una parente, Sacerdoti verrà nominato tutore di un ragazzino mai visto prima, Noah, un evento destinato a cambiare per sempre la vita di entrambi, fra colpi di scena e l’irruzione della pubertà, l’ossequio alle tradizioni ebraiche e un inatteso risvolto ereditario.

Il nuovo libro di Piperno
Il nuovo libro di Piperno
L’autore Alessandro Piperno, 52 anni, autore di “Con le peggiori intenzioni” e “Inseparabili”, già vincitore del Premio Strega e Campiello Opera Prima, nonché direttore della collana editoriale I Meridiani della Mondadori (foto Claudio Sforza)  

“Aria di famiglia” riflette sul tempo e sulla mancata paternità di Sacerdoti ma facendolo, Piperno schiva abilmente la narrativa del trauma che impera fra i narratori italiani e torna in libreria con un romanzo di respiro internazionale, provocatorio quanto intelligente, eppure, capace di non prendersi mai troppo sul serio. “Aria di famiglia” parla della nostra società e della mancata paternità del professor Sacerdoti.

Per il suo protagonista, cosa significa l’arrivo improvviso di Noah?

«Non saprei dirle di cosa parla “Aria di famiglia”. Spero non di una roba grossa come la nostra società, ma di qualcosa di più singolare e specifico. Di certo, parla di un cinquantenne in difficoltà costretto dalle circostanze ad adottare un nipotino orfano che non ha mai visto prima e che proviene da una famiglia di ebrei ortodossi».

Le è piaciuto scriverlo?

«Calarmi nel rapporto affettivo tra un vecchio miscredente e un bimbo osservante è stata una delle avventure più emozionanti che mi sia mai capitato di intraprendere».

Piperno, parafrasando l’apertura del suo romanzo, le chiedo: in un mondo di permalosi, come si resiste senza perdere l’entusiasmo?

«Temo che la suscettibilità rovini la vita soprattutto a chi la prova. Il guaio dei permalosi cronici è che ridono poco e che prendono tutto troppo seriamente. Personalmente faticherei a vivere senza ridere di ogni cosa, a cominciare da me stesso naturalmente».

Glielo domando senza giri di parole: i lettori capiranno l’ironia insita nella storia kafkiana del suo protagonista o la giudicheranno un misogino? «Grazie al cielo i lettori non sono un blocco unico. Preferisco pensare al singolo lettore che saprà stare al gioco. A lui di certo non sfuggirà che in questo libro non c’è traccia di misoginia».

Il suo protagonista cita le lettere di Flaubert e lei evidenzia come al genio si accompagnassero opinioni anche discutibili. Possiamo, forse dobbiamo, separare l’autore dai libri o non è giusto farlo?

«Speravo che i comitati di salute pubblica e i libri all’indice fossero un retaggio di un passato oscuro. Purtroppo, non è così. Si è tornati a giudicare i libri e i loro autori secondo criteri moralisti e puritani. Si è tornati a sconsigliarli, se non addirittura a proibirli. Di questo passo tra breve li bruceranno».

Del resto, sono all’opera comitati di lettori inclusivi che hanno spinto a censurare Fleming e Dahl. La narrativa non è più libera? E qual è il ruolo dell’intellettuale in questo contesto?

«Non credo ci sia tutta questa differenza tra chi a metà ottocento accusava di oscenità un libro come Madame Bovary e chi oggi accusa di immoralità il suo autore. A infastidirmi è soprattutto l’approccio. Quando sento parlare i rappresentanti di questi comitati, quando li vedo argomentare con la bava alla bocca, mi si gela il sangue. Sono capziosi, arroganti, assetati di sangue come il senatore McCarthy. Del resto, ho un’avversione epidermica per la parola intellettuale. Guardo con sospetto chi sentendosi depositario di una verità superiore, dall’alto della sua cultura, non vede l’ora di imporla agli altri».

Come si esce dalla retorica della resilienza che propina buona parte della narrativa italiana contemporanea?

«Temo che questo non debba chiederlo a me. Non posso parlare a nome della categoria».

La spaventano le proteste contro la Brigata ebraica ai cortei del 25 aprile e la rivolta sempre più violenta nei campus americani contro Israele?

«Mi inquietano, mi fanno arrabbiare ma non mi stupiscono. Anche qui: niente di nuovo sotto il sole. Fa parte dello stesso clima morale di cui abbiamo già parlato. Nei momenti di confusione e di grande fermento populista i primi a farne le spese sono gli ebrei. Non c’è nulla di più stupido e di più violento di uno slogan. Non c’è nulla di più pericoloso di chi si sente sempre e comunque dalla parte della ragione. Siamo all’alba di un nuovo ’68? Il conflitto israelo-palestinese è il nuovo Vietnam? L’ebreo il nuovo Satana? Spero di no ma temo proprio di sì».

Il suo protagonista riflette apertamente sul tema. A suo avviso, oggi che ruolo gioca la vanità nel mondo culturale, nell’editoria italiana?

«Non c’è nulla di male nel coltivare un sano narcisismo. Da sempre chi occupa un ruolo di rilievo nel mondo culturale è incline alla vanità. Il problema è che oggi si è perso il ritegno nel manifestarla e si utilizza ogni mezzo per nutrirla. Ci sono scrittori che si arrabbiano se non hanno il richiamo in prima pagina o se a un festival il loro nome non è in cima alla lista. Ce ne sono altri che colgono qualsiasi pretesto per pontificare».

E lei?

«Personalmente quando vengo preso da certi impulsi penso sempre a Kafka. Mi dico: “se lui non ha avuto i riconoscimenti che meritava, perché mai dovresti averli tu?”». 

© Riproduzione riservata