"Caro Daniele, una sola parola: grazie, e scusa per il disturbo.

Mio padre fa l’allenatore di calcio, mio fratello è calciatore, io sono stato arbitro fino a fare l’assistente in serie D. Ma sono anche un politico, e dopo tanto silenzio, specie dopo il coinvolgimento nel noto caso degli “insulti” all’Isinbayeva, scrivo ora e non a caso: lontano da qualunque scadenza elettorale, lontano da qualsiasi strumentalizzazione.

Sarei nato di lì a poco quando l’Apa escluse l’omosessualità dalle patologie psichiatriche; avevo 13 anni quando l’OMS decise di escludere l’omosessualità dalle malattie mentali. Fino a quel momento, per tutti ma soprattutto per me, ero un malato mentale. Era il tempo in cui prendevi coscienza dei tuoi sentimenti, delle tue prime pulsioni, come tutti gli adolescenti a quella età.

Era il primo coming out; lo facevi con te stesso, nel silenzio assordante della tua stanza, non osavi lasciarne traccia neanche nelle intime pagine del tuo diario, e la tua immagine riflessa nello specchio era un’immagine nebulosa, quasi fastidiosa, rifiutavi te stesso e l’arroganza di essere come Dio mai avrebbe voluto tu fossi. E il rifiuto di te, assume i contorni dolorosi di chi non vuole conoscere se stesso, e per quanto mi riguarda, di chi di Dio non aveva capito nulla. Ma la vita è troppo breve e prepotente per fermarsi nel dolore e cosi fai una scelta, quella si, contro natura. E scegli la “normalità” dell’eterosessualità, la via socialmente e culturalmente più semplice; e cambi pelle, fino a diventare tu squallidamente omofobo in nome di una maschera di opportunismo e di ipocrisia che ti protegga da te stesso, e rinchiudere nel profondo del tuo “io” smarrito, quella impronunciabile vergogna dell’amore malato. Fino ai trent’anni. Per carità, a modo mio, ho “amato” le donne con cui sono stato ma non sono convinto di averle rispettate. Non le ho rispettate nel preciso istante in cui non ho rispettato me stesso.

Ma la vita è troppo breve e prepotente per non offrirti una seconda occasione. Perché è meglio una vita con qualche rimorso che una vita dall’eterno rimpianto.

Sono diventato politicamente noto per la lotta all’omofobia, assessore del primo comune in italia ad aver approvato un atto amministrativo in quel senso. E ciò nonostante mi sia occupato di tante cose durante il mio umilissimo percorso al servizio della collettività. Ma ero una notizia: esponente del pd, eterosessuale e cattolico che si schiera in difesa dei gay e in un periodo dove se ne parlava meno di oggi.

Un po’ come te oggi, caro Daniele; autorevole esponente di quel tempio “machista” che è il mondo del pallone. “Pensa a lavorare” ti hanno detto. Un po’ come quell’insignificante dibattito che in nome della priorità del “lavoro” si derubrica la rivendicazione dei diritti LGBT a politiche di serie B. Come se il lavoro non fosse quello strumento e quel diritto ad una vita dignitosa per sé e per i propri affetti e per la propria famiglia, come progresso materiale e spirituale di una società dove c’è ancora però qualcuno, che quella famiglia non ha diritto a vedersi riconosciuta. “I matrimoni gay” mettono a rischio la “famiglia tradizionale” mi sento ripetere da chi magari, la propria moglie la picchia o la priva anche di quel sacrosanto diritto a sentirsi amati e amate finché “morte non ci separi”. Sono diventato famoso per la lotta in difesa dei diritti LGBT ma io delle politiche della famiglia non me ne riempio la bocca per discriminare gli altrui diritti: io per la famiglia ho aperto un asilo nido nel mio comune.

Non ho fatto coming out subito perché pensavo che alla causa fosse più consono e utile la visibilità di un eterosessuale che si spendeva per quelle battaglie.

Ho deciso poi di farlo perché penso sia assurdo rivendicare diritti per una condizione di cui si ha il pudore o la “vergogna” di rendere pubblico. Perché un gay dovrebbe fare coming out? Rispondo così: perche un eterosessuale fa coming out tutti i giorni, quando passeggia liberamente per strada mano nella mano con la propria compagna, perche lo fa tutti i giorni quando parla liberamente della propria condizione familiare o dei propri figli.

Caro Daniele, di quegli insulti, non ti curar; questa è l’ennesima prova di un’ignoranza dilagante del nostro paese che non è in grado di adattarsi ai tempi che corrono, che rimane fermo a certe credenze paleolitiche; un ignoranza che “uccide” la nostra società e soprattutto le persone che la compongono (circa il 30% dei suicidi adolescenziali è dovuto a questo motivo), come il triste caso del calciatore inglese Justin Fashanu, il primo giocatore a dichiarare apertamente la propria omosessualità.

Mi viene in mente Gabriella Dorio, ex atleta italiana, medaglia d'oro nei 1500 metri piani alle Olimpiadi quando disse che “praticare uno sport non deve fondarsi sull’idea del successo, bensì sull’idea di dare il meglio di sé”. Oggi Daniele hai fatto questo: hai dato il meglio di te, ha dato il meglio di noi.

Grazie, a te, e non solo. Forza Cagliari".

Gianluigi Piras
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