Il cero benedetto e il ragazzo
di Nicola LeccaC agliari. È una mattina del 1988 quando un'adolescente entra nella chiesa di piazza Giovanni XXIII. Sua madre sta male e il dolore non la lascia dormire. Allora lui si inginocchia davanti all'altare, fa il segno della croce e, pregando, si rivolge a Dio con le sue parole semplici. Ha fiducia in lui. Si sente ascoltato.
Poco dopo, quando si rialza, nota che il grande cero accanto a lui (alto quasi un metro e sostenuto da una struttura in metallo) ha perso un frammento che, ora, giace al suolo.
Lo guarda. Pensa che quel cero benedetto potrebbe aiutare sua madre a guarire più in fretta. A provare meno dolore. Allora lo raccoglie: lo avvolge delicatamente in un fazzolettino di carta, se lo infila in tasca e torna a casa.
È felice. Ma la sua coscienza gli suggerisce che, forse, ha fatto qualcosa di sbagliato. Il frammento del cero non gli appartiene. E lui, nonostante i buoni propositi con cui l'ha preso, ha forse commesso uno di quei peccati gravi che, infatti, si chiamano “mortali”.
NON RUBARE. Gli risuona nella testa.
Allora decide di riferire a un sacerdote, in confessione, di quell'atto.
Le parole che i due si scambiano sono protette dal segreto e non possono essere rivelate.
Si può riferire, però, che il ragazzino lasciò la chiesa deluso, con il volto segnato da una profonda tristezza.
È la prima volta che, volendo fare del bene, ha fatto qualcosa di male.
Nel ritornare a casa, mentre guarda il pavimento della piazza coperto dal viola dei fiori caduti di giacaranda, si rende conto della complessità dell'esistenza umana.
Ah! Quanto è difficile “essere buoni”. Fare sempre ciò che è giusto. Comportarsi come ci si aspetta. Soddisfare le aspettative, osservare le regole.
Quanto più facile sarebbe essere amati incondizionatamente. Esattamente come piace a Dio…