È vero: è un processo a porte chiuse. Ed è a porte chiuse perché tratta di argomenti scabrosi. Per la vittima, soprattutto, ma anche per gli imputati: i processi per violenza sessuale si fanno senza pubblico per tutelare le parti in causa. Perché come in tutti i processi, per capire che cosa sia successo, se il fatto sia successo, chi ne sia il responsabile bisogna entrare nel particolare. E chiunque capisce da un lato l’imbarazzo di tutti, dall’altro il dolore di chi deve riferire davanti a giudici, pubblici ministeri, avvocati, imputati, consulenti, testimoni. Porte chiuse, sì, ma con tanta gente dentro.

D a quelle porte chiuse filtra non tutto ma molto. E i giornalisti devono fidarsi di un racconto mediato dalle parti che, più o meno inconsapevolmente, offrono la loro lettura dell’udienza, in senso difensivo o accusatorio, spesso in termini antitetici. Chi è fuori difficilmente potrà farsi un’idea di quello che sta accadendo. Ancora di più se sul processo sono stati accesi potenti fari. Come nel caso Grillo. Lamentarsi dei “comizietti” di un’avvocata-deputata che riporta in tv le domande che non vorremmo più sentire (Com’era vestita?) dirette alla vittima, e ricordare – ora - che si tratta di un processo a porte chiuse non vale. Non qui, non più, non da quel pulpito. Per il semplice motivo che quelle porte le ha aperte chi oggi le vorrebbe sprangate.

Ha cominciato proprio lui, Beppe Grillo, che domenica da Fazio sul Nove ha attaccato l’avvocata di parte civile Giulia Bongiorno (che si batte da tempo in difesa delle donne vittime di violenza) per il processo che vede suo figlio Ciro imputato di violenza sessuale di gruppo insieme a tre amici: il 19 aprile 2021, quando nessuno o quasi ne parlava, ha attirato l’attenzione con un video su Instagram in cui faceva il processo alla parte civile, colpevole di aver presentato denuncia otto giorni dopo, mentre gli imputati erano solo un “gruppo di ragazzi di 19 anni che ridono, si stanno divertendo, in mutande, e si alternano, col pisello così, perché sono coglioni e non 4 stupratori (…), non lo dico io che sono il padre, c’è un video, si vede che c’è il consenso”. Testuale.

Sarà pure vero, vedremo, nessuno è ora in grado dall’esterno di dire nulla, è compito dei giudici, i processi servono proprio a questo: chiarire i fatti. Senza però attaccare la parte civile. Va bene la presunzione di innocenza degli imputati ma anche la parte lesa va tutelata, e rispettata. In aula e fuori, riprendendo, per esempio, a chiamarla parte civile e non presunta vittima, ancor meno accusatrice visto che nel processo l’accusa è sostenuta dal pubblico ministero.

Questa vicenda è particolarmente delicata, perché non è in dubbio il fatto (i rapporti sessuali ci sono stati) bensì il consenso: la donna era d’accordo? Era in grado di essere d’accordo? O era stordita dagli alcolici? Nel qual caso non poteva dare alcun consenso e allora il suo stato diventa un’aggravante a carico degli imputati. Dividersi tra innocentisti e colpevolisti senza nulla sapere crea soltanto rumore di fondo. Allora, prendetela pure per una provocazione, perché tale è: aprite le porte, fate entrare i giornalisti, così saranno loro e non avvocati, magistrati, consulenti, genitori, parenti, amici a valutare che cosa succede in udienza, e magari riferire se davvero alla parte civile vengono fatte domande che la mettono di fatto sul banco degli imputati, come cinquant’anni fa tuonava Tina Lagostena Bassi, un’avvocata che si è spesa affinché non succedesse. In una arringa – purtroppo attualissima - disse che in un processo per rapina “nessuno si sognerebbe di dire che il gioielliere è un ricettatore, un usuraio, un evasore, giusto p er infangare la parte lesa. Perché, se invece di quattro oggetti d’oro l’oggetto del reato è una donna in carne e ossa, ci si permette di fare un processo a lei? Questa è una prassi costante, il processo alla donna, la vera imputata è la donna”. Non sono comizietti. Si chiama civiltà, non solo giuridica.

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