«La Sardegna è stata così gentile nell’ospitare questo giovane assassino, è giusto, però, che i sardi conoscano la storia di mia figlia».

Dall’altro capo del telefono, la voce, strozzata dal dolore, è quella di Vincenzo Gualzetti, papà di Chiara, la quindicenne uccisa nel giugno del 2021 a Monteveglio, vicino a Bologna. Ad ammazzarla è stato un suo coetaneo, Andrea Iavarone, oggi maggiorenne che sta scontando una pena di 16 anni e 4 mesi di carcere – il massimo previsto per un minorenne – nel carcere minorile di Quartucciu.

La vicenda

«Chiara è stata attirata in una tragica trappola con la scusa di fare una passeggiata e darle un regalo – racconta l’uomo senza riuscire a trattenere le lacrime -, lo ha raccontato lui stesso durante il processo. L’ha fatta girare, le ha messo una mano davanti alla bocca e l’ha colpita di spalle: prima una coltellata alla nuca, poi nel petto e, non contento, l’ha presa a calci, addirittura rompendosi un piede. Sembra poi si sia fatto anche un selfie con il corpo di mia figlia».

L’omicidio che ha sconvolto la piccola comunità di Monteveglio è stato commesso il 27 giugno del 2021. Dopo il delitto, il corpo della ragazza è stato abbandonato ai margini di un bosco nel parco dell'abbazia di Monteveglio ed è stato ritrovato dopo un giorno di ricerche.

Il giovane ha ammesso dopo il fermo di aver premeditato l'omicidio e di aver già provato in precedenza ad uccidere l'amica. E poi ha confessato agli inquirenti di aver agito perché guidato da un demone, Samae, protagonista della serie fantasy Lucifer. Per lui la condanna a 16 anni e quattro mesi è stata confermata in Appello lo scorso marzo, detenuto nel carcere minorile del Pratello di Bologna è stato successivamente trasferito in quello di Quartucciu.

«Ci sono volute cinque perizie per attestare la sua lucidità», prosegue Vincenzo Gualzatti, «quando ha ucciso mia figlia ha mandato un messaggio a un’amica e le ha scritto “Ci sono riuscito, ho ammazzato quella sfigata”. L’altra ragazza gli ha chiesto: “Come si chiama questa ragazza?” e lui con molta freddezza e lucidità le ha risposto: “Si chiamava Chiara”. Ha depistato le indagini, ha giocato con i messaggini ha fatto tutto con molta lucidità».

È un dolore straziante quello di Vincenzo, una ferita che sanguina ogni giorno e che nessuno può davvero comprendere. Una sofferenza che fino allo scorso luglio ha condiviso con sua moglie Giusy, morta dopo una lunga malattia e lacerata dalla morte della loro unica figlia. «Sono sicuro che ora sia di nuovo con Chiara, ma ora la mia è una vita a metà, che non ha più alcun sapore. Non ho liberato la stanza di Chiara, non ho buttato i suoi vestiti. A volte penso che da un momento all’altro possa tornare da me. Elaborare la morte di un figlio non è mai semplice, meno che mai una morte così».

La battaglia

Per il papà di Chiara, però, questa storia non può finire così. «Tutti hanno lavorato per ottenere una pena esemplare, però, la mia Chiara non tornerà. Sedici anni e quattro mesi sono in linea con quanto richiesto dalla Procura e praticamente il massimo della pena consentita dall’ordinamento minorile e dal rito abbreviato scelto dall’imputato», evidenzia ancora l’uomo, «ma non può bastare, Chiara non tornerà», ripete.

Ora Vincenzo punta alla battaglia per ottenere pene più severe nei confronti dei minorenni: un progetto di modifica della norma sostenuto dall’avvocata che lo ha rappresentato in questi anni, Giovanna Annunziata. «Il fatto che ad aver compiuto l’omicidio sia stato un minore non può avere in automatico lo sconto della pena. Deve essere il giudice del tribunale a decidere, caso per caso, se applicare o meno il massimo della pena. Bisogna unirsi per dire basta a morti efferate e senza ragione».

Francesca Melis

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