Non si può morire di pecorino romano
È assurdo che in Sardegna si debba restare ancorati in maniera assolutamente prevalente alla produzione del pecorino romano DOPGli allevatori sardi, ancora in attesa di risposte da parte dei politici che avevano promesso mari e monti, sono oramai arrivati allo stremo e sono nuovamente sul piede di guerra e, quindi, nuovamente pronti a tingere di bianco le strade isolane.
Premesso che a mio modo di vedere il gesto di disperdere il latte per le strade costituisce una offesa gravissima che ogni allevatore infligge prima di tutto a se stesso, siccome mortifica non solo il proprio lavoro e il proprio sacrificio quotidiano ma anche le ragioni stesse di una protesta in linea di principio condivisibile, sono consapevole che il problema esiste e che, per davvero, la politica, costantemente chiamata a intervenire, sembra invece fare orecchie da mercante.
Benché, in conseguenza degli episodi di protesta di circa sette mesi fa, si addivenne a un accordo per portare il prezzo del latte ovino e caprino a 70/72 centesimi a litro, comunque siffatto “aggiustamento” sembra essersi rivelato ancora irrisorio e assolutamente inadeguato a far fronte alle spese vive e alle necessità degli interessati.
Ma è davvero così complicato portare il prezzo del latte che i nostri allevatori conferiscono ai grandi caseifici fino ad almeno 1 euro a litro? Da cosa dipende l’eventuale incremento del prezzo o del suo crollo? Quel prezzo è davvero direttamente collegato al prezzo del prodotto finito, ossia del pecorino romano? E la politica può concretamente intervenire oppure le promesse fatte sono destinate a restare tali perché, in realtà, è solo il mercato a dettare le regole? È innegabile che l’intero comparto produttivo patisca deficienze strutturali difficilmente gestibili e, di conseguenza, l’oscillazione frustrante del prezzo del latte e del prodotto finito ne costituiscono la naturale espressione.
Ma quel che appare davvero inaccettabile è che i nostri allevatori debbano, per così dire, morire di pecorino romano. Intanto, perché è assurdo che in Sardegna si debba restare ancorati in maniera assolutamente prevalente alla produzione del pecorino romano DOP, prodotto paradossalmente in loco con il nostro latte e che noi sardi neppure consumiamo, laddove, invece, politiche volte alla diversificazione della produzione avrebbero potuto, e potrebbero, contribuire a migliorare la situazione del comparto.
Perché sotto gli occhi di tutti che è stato lo sforamento della quota di produzione del pecorino romano da parte dei grandi caseifici nell’anno 2018 a determinare il crollo del prezzo di vendita all’ingrosso del prodotto comportando, di conseguenza, il crollo del corrispettivo pagato ai pastori all’atto del conferimento della materia prima, i quali, loro malgrado, si sono trovati dunque a patire il danno delle violazioni commesse dalle industrie di trasformazione senza che nessuno abbia mai pensato a risarcirli o a compensarne la perdita economica ponendone il pagamento a carico di quelle stesse industrie.
Poi, per dirla tutta, perché il venir meno del ruolo determinante dello Stato, e quindi delle specifiche sovvenzioni nazionali ma anche europee in materia, ha certamente contribuito ad amplificare un problema da sempre esistente ma che fino ad un certo momento era stato mitigato da quegli “aiutini” da parte del governo centrale ed europeo che, in buona sostanza, andavano a compensare le oscillazioni del prezzo del latte annullando, o quasi, il rischio connesso all’andamento del mercato.
Inoltre, perché il settore caseario costituisce una parte determinante dell’economia sicché sarebbe opportuno riscriverne le regole fissando, nel contempo, punti fermi che per un verso incrementino l’utilizzo economicamente alternativo del latte non impiegato nella produzione del pecorino romano di modo da farlo divenire fonte di reddito, per altro verso incidano in maniera più severa nel controllo della produzione, e per altro verso ancora prevedano l’istituzione di apposite commissioni incaricate di vigilare sul rispetto del prezzo del latte e del prodotto finito al fine di evitarne oscillazioni drastiche in danno alla parte più debole della catena produttiva, ovverosia gli allevatori sardi che coraggiosamente portano avanti le nostre tradizioni in un ambiente difficile quale quello delle zone isolane interne, caratterizzate purtroppo da un incessante processo di spopolamento.
Infine, perché la politica, considerata la oramai cronica incapienza delle casse dello Stato, anziché intervenire solo per arginare le proteste con promesse aleatorie, dovrebbe seriamente provvedere a proporre soluzioni innovative che si traducano in misure dirette a consentire una metamorfosi della filiera nel suo complesso che favorisca, in primis, la valorizzazione e il riconoscimento della professionalità dei nostri allevatori, la quale costituisce anch’essa, e innegabilmente, un valore aggiunto al quale ricondurre per ciò stesso un valore economico. Ma non basta.
Da parte loro, infatti, i nostri allevatori, dovrebbero recuperare lo spirito di iniziativa, cominciando proprio dal superare inutili pregiudizi legati al particolarismo delle singole produzioni familiari, e tutelare così i propri interessi consorziandosi tra loro e dando vita a caseifici di loro proprietà che, considerata la peculiarità dei nostri tradizionali metodi di produzione, potrebbero addirittura divenire competitivi quanto meno sul mercato interno.
Sono consapevole che siffatte soluzioni richiedono del tempo, il cui trascorrere, nella situazione contingente, sarebbe dannoso per i protagonisti deboli della vicenda. In questo senso, sarebbe utile che, nell’immediato, i politici lavorassero per portare il prezzo del latte a un euro quanto meno per un determinato periodo di tempo, facendone gravare il peso sulla grande industria, di modo tale da consentire quelle trasformazioni del comparto che oggi più che mai sono necessarie per la sopravvivenza di una categoria di “professionisti” che non è solo sarda.
Giuseppina Di Salvatore
(avvocato - Nuoro)