Il distretto è quello delle Niagara Falls, le cascate più grandi del mondo. Sudbury, cittadina grigia e anonima nella provincia dell’Ontario, nel Canada che conta, è terra di Glencore, la multinazionale che estrae metalli in mezzo mondo e forse più. Tra questa periferia canadese e la zona industriale di Portovesme, profondo Sulcis, Isola di Sardegna, terra perennemente violentata da profittatori incalliti, in linea d’aria, ci sono la bellezza di 6.907 chilometri. In pratica, dall’altra parte del mondo.

Dalle Cascate del Nigara

Eppure gli svizzeri della Glencore non si sono posti alcun ostacolo nel progettare un “ponte” virtuale di “Black Mass”, la massa nera, tra l’Oceano Atlantico e il Mar di Sardegna. È questo viaggio infinito, quello tra la miniera-stabilimento di Glencore in Canada e il precario stabilimento industriale della Portovesme Srl, il primo buco nero del piano di riconversione messo su carta dai signori svizzeri del Litio riciclato. In quell’enclave geologica ai confini con gli Stati Uniti, infatti, c’è il bacino di Sudbury, una zona mineraria ricca di depositi di nichel, rame, cobalto, oro, argento, platino e palladio. Nei file ancora blindati segregati negli uffici di viale Trento, però, emergono dettagli tutti avvolti da un mistero industriale inspiegabile.

Il mistero dell’arrivo

Da una parte si nega l’informazione principale, ovvero da dove arriverà questo fiume in piena di “Black Mass” e dall’altra si individuano in maniera puntuale i luoghi in cui verranno spediti i “ricchi” metalli una volta estratti nello stabilimento di Portovesme. In questo passaggio “cruciale” dei viaggi in entrata e in uscita dalla Sardegna ci sono almeno tre verità: non si sa da dove arriverà la “Black Mass”; si sa dove verranno spediti i metalli pregiati estratti a Portovesme; lo stabilimento sardo sarà un mero esecutore del lavoro “sporco”, quello più impattante sul piano ambientale.

6 navi in partenza e arrivo

Nei pochi dettagli indicati nel progetto si legge: «La Black Mass arriverà via nave al porto di Cagliari in container contenenti sacconi chiusi (6 navi container all’anno)». Su cosa esattamente arriva e da dove la relazione ambientale e quella del progetto generale non lo dicono. L’unico riferimento è agli stabilimenti di Li Cycle, la società di riciclo di batterie con impianti di produzione di “Black Mass” sparsi un pò ovunque nel mondo, da Kingston, nell’Ontario canadese, a Rochester nel distretto industriale di New York, da Gilbert in Arizona a Tuscaloosa in Alabama. Dunque, solo per deduzione la “massa nera” dovrebbe arrivare in Sardegna dai luoghi più impensabili degli Stati Uniti e non solo.

Destinazione finale

Il piano, invece, è preciso, con puntuali riferimenti geografici, nella parte relativa ai luoghi di destinazione dei metalli rari, quelli estratti in Sardegna, per l’esattezza a Portovesme, e da rispedire, poi, in giro per il mondo. Scrivono i signori della Glencore: «I container contenenti i sacconi saranno trasportati su camion dallo stabilimento al porto di Cagliari per il loro invio via nave agli impianti di stoccaggio Glencore di Nikkerlverk (Norvegia) e Sudbury (Canada). Si prevede l’invio di 6 navi container all’anno».

Sei navi sempre cariche

Anche in questo caso non mancano i “buchi neri” su come sia possibile far arrivare sei navi di scorie di batterie all’anno e farne ripartire altrettante. Come se i cumuli di “Black Mass” facessero sali e scendi, dall’Oceano Atlantico e la Norvegia verso la Sardegna, senza alcuna riduzione quantitativa. Di certo nella terra delle bonifiche dimenticate, quella del Sulcis, è stato deciso di sperimentare il “test” più impattante, quello dell’estrazione dei metalli pregiati da quelle scorie spedite nell’Isola. E non sarà una passeggiata, visto che il dossier incartato per la Regione, con tanto di fiocchetto a colori, descrive un passaggio “estrattivo” pieno di insidie. A partire dal primo dato: si tratta di un esperimento, dall’esito incerto sia sul piano economico che tecnologico.

Esperimenti al buio

Una pseudo riconversione appesa a mille incertezze. Confessa il piano: «Progettazione e realizzazione del nuovo impianto dimostrativo per la produzione di Carbonato di litio e Ossidi di Metalli Misti dal trattamento della “Black Mass”, che, come dice il nome, si prefigge l’obiettivo di realizzare un impianto dimostrativo di capacità di trattamento di 11.318 tonnellate all’anno, per il recupero del Carbonato di litio dal prodotto del trattamento delle batterie esauste a ioni di litio (Black Mass)». Un dettaglio lo svelano i documenti: per trattare mille chili di “massa nera” saranno utilizzati, come reagente, 880 chili di Acido solforico, ben 4.580 litri d’acqua demineralizzata e 810 chili di soda caustica. Per non parlare, poi, dell’energia, quella della centrale che Enel e Terna vogliono chiudere.

Manca il movente

Il più grande buco nero di questa operazione è la “ratio”, ovvero il motivo di questo sali e scendi di massa nera da una parte all’altra del mondo verso la Sardegna. Nel piano non c’è traccia di una valutazione economica, non si parla della “convenienza” nel trasportare queste scorie dalla lontana America sino a Portovesme e poi, da qui, far ripartire il prodotto finito. È possibile che Elon Musk non abbia pensato di ottimizzare a casa sua il riciclo delle batterie della sua Tesla? La risposta è netta: non solo ci ha pensato, ma lo ha fatto.

Elon Musk fa tutto da solo

Nell’ultimo “Impact report” la casa automobilistica dell’uomo più ricco, con 187,1 miliardi di dollari di capitali, ha dichiarato che «grazie agli sforzi compiuti per migliorare i processi per il recupero di metalli e materie prime dai propri accumulatori ormai riesce a riutilizzarne il 92%». Le affermazioni sono tali da trasformare il “buco nero” del progetto sardo della “Black Mass” in una voragine di dubbi: «Il riciclo in loco – aggiunge il report di Tesla – ci avvicina ulteriormente alla chiusura del ciclo sulla fornitura dei materiali consentendo il trasferimento delle materie prime direttamente ai nostri fornitori di nichel e cobalto. Con il nuovo impianto, Tesla – si afferma nel report – è in grado non solo di riciclare una maggiore percentuale di materie prime per batteria, ma anche un numero maggiore di batterie, lavorando su larga scala e ottenendo enormi benefici sulla produzione». La domanda è lecita: ma se il più avanzato produttore di macchine elettriche è passato da teorizzare il riciclo delle batterie made in Tesla al loro riutilizzo per oltre il 90%, non c’è da credere che lo faranno anche gli altri grandi player?

I piani futuri

Il tentativo della Glencore, dunque, è non solo disperato, ma appare fuori tempo massimo, oltre che difficilmente giustificabile sul piano economico. Da qui i tanti dubbi su quest’operazione che punta a costringere il Sulcis ad accettare quello che definiscono «un polo di avanguardia primo nel suo genere in Europa nella tecnologia di trattamento della Black Mass e recupero del litio». L’impianto pilota, secondo quanto scrivono gli svizzeri nel piano, «consentirà di sperimentare e ottimizzare il processo di recupero, ottenendo le informazioni e il know how propedeutici alla realizzazione di un impianto alla scala industriale nello stesso sito di Portovesme». L’obiettivo finale è declinato in poche righe: «Glencore e Li-Cycle hanno annunciato formalmente uno studio congiunto per lo sviluppo di un Recycling Hub Europeo attraverso la riconversione di parte dello stabilimento metallurgico esistente. L’hub avrà una capacità di trattamento di 50.000 – 70.000 tonnellate all’anno di Black Mass». In teoria la capitale delle “scorie nere” di tutta l’Europa e non solo.

Il buco delle bonifiche

L’ultimo buco nero di questa vicenda sono le bonifiche di Portovesme. Tra una scusa e l’altra, tra un piano di riconversione e un impianto sperimentale, le bonifiche, quelle vere e serie, non sono mai iniziate. I mal pensanti, quelli che conoscono bene le multinazionali, sanno che temono come il diavolo il principio di “chi inquina paga”. E i danni ambientali nella terra del Sulcis superano di gran lunga i cinquecento milioni di euro. La Glencore, in questa operazione della “Black Mass” mondiale, per adesso, annuncia di voler spendere appena 5 milioni di euro. Una convenienza, quindi, sotto sotto, la "massa nera”, quella delle batterie esauste, potrebbe averla. Come sempre tutta a scapito delle bonifiche, dell’ambiente e della salute.

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