È appena arrivato a Napoli che già non gli bastano più le celle per i 41 bis. Nicola Gratteri, il terrore della ’Ndrangheta, da qualche mese ha messo sotto attacco la camorra. Da Reggio Calabria alla capitale partenopea, per quella che lui considera una guerra alle mafie senza confine, dalla terra dei fuochi alle periferie di Caracas. Di lui dicono di tutto e di più, modi bruschi, irruento, spaccone e soprattutto il terrore della politica. Dice quel che pensa, non ama il savoir faire, e quando parla fa rumore. Il suo sbarco alla Procura napoletana non è arrivato per grazia ricevuta, semmai per meriti conquistati sul campo: sgominate bande internazionali di traffico di stupefacenti, colletti bianchi e gangli strategici nella pubblica amministrazione. Li ha inseguiti, li ha arrestati e molto spesso fatti condannare. Ora, però, all’inizio del suo nuovo mandato, ha un problema grande come un carcere: non sa dove mettere “i 41 bis”, quei capimafia da isolare senza tregua, per tentare di renderli inermi nelle celle di massima sicurezza.

Take Gratteri

Quando le agenzie battono il take targato Gratteri in Sardegna c’è mezzo parlamento, tutti a tifare per il proprio beniamino. Un fulmine a ciel sereno, apparentemente. Si sa, quando il nemico giurato dei padrini di mafia parla, significa che qualcosa sta per accadere. Più che un appello la sua è una denuncia, pubblica e senza mezzi termini: “A Cagliari hanno costruito un carcere per il 41 bis, ma la sezione non può aprire”. E indica anche la soluzione per non lasciarlo più chiuso: «Servono più agenti di polizia penitenziaria». Non parla a caso il Procuratore di Napoli: «Da vent’anni sento dire che per costruire un carcere ci vogliono sette anni. Due sole carceri sono costruite per il 41 bis: Sassari e Cagliari, dove in quest'ultimo la sezione non si riesce ad aprire». Conosce la pratica sarda, evidentemente: «Purtroppo con pochi agenti di polizia penitenziaria non si può applicare efficacemente il regime di alta sicurezza». Sa tutto Nicola Gratteri, compreso il cursus honorum di quelle celle per capimafia.

Carcere Cajenna

Una storia lunga da via crucis perenne, da quando il fallimento dell’impresa che lo doveva realizzare ha mandato gambe all’aria il piano per trasformare anche la Sardegna del sud in una cajenna per boss incalliti, padrini di primo piano a capo di organizzazioni criminali capaci di radicarsi ovunque, compresa quella che, per convenienza, è sempre stata descritta come l’Isola inespugnabile. L’ennesima calata di mafiosi in terra sarda, negli anni, è stata respinta più volte, almeno dal 2014 quando, a suon di opinione pubblica, saltò per aria il tentativo di spedire anche nel carcere cagliaritano, dopo quello di Sassari, un nuovo contingente di boss, con i nomi più altisonanti della rete mafiosa italiana, dalla camorra alla ‘Ndrangheta.

Boss annunciati

Una peripezia che ha visto Ministri e capi del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, inerpicarsi in promesse ripetute sull’apertura del braccio del 41 bis di Uta. Tutti annunci destinati a franare con il passare dei giorni, dei mesi e degli anni. L’ultima in Sardegna il Ministro della Giustizia nel Governo Draghi, Marta Cartabia. Era il 24 giugno del 2022. Non una visita per parlare di riforme. La sua missione, poi immortalata, era ben circoscritta: accertarsi che quelle celle a prova di boss fossero pronte. Lo erano già allora, nonostante il carcere di Uta fosse un inferno, con numeri “psichiatrici” impressionanti, con 276 atti di autolesionismo in un solo anno, compresi i tentativi di suicidio.

Mancano 110 agenti

Un vero e proprio potenziale esplosivo con un dato inaudito: la pianta organica prevede 421 agenti, ce ne sono, invece, appena 311, ovvero 110 mancano all’appello, con tutto quello che consegue in termini di sicurezza, a partire da quella degli stessi agenti costretti a lavorare con il patema d’animo dell’aggressione imminente. Non passa giorno che non si registrino pugni, calci e testate, come è accaduto anche ieri all’interno delle 15 sezioni della città-carcere di Uta.

Capidroga già arrivati

In quella landa desolata, alla periferia della zona industriale di Macchiareddu, al 31 gennaio scorso si registra la presenza di 616 detenuti, a fronte di una capienza di 561. C’è un dettaglio, però. Nel silenzio più assoluto, con un blitz sconosciuto ai più, nel carcere di Uta sono stati, infatti, dislocati ben 42 detenuti classificati nel regime di Alta Sicurezza 3, ovvero capimafia che hanno rivestito posizioni di vertice nelle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti internazionale e non solo. Si tratta di detenuti provenienti da altre regioni italiane e che ora popolano “animatamente” il polo carcerario di Uta.

Rischio infiltrazioni

Una presenza che avrebbe dovuto non solo ridefinire al rialzo la pianta organica, vista la pericolosità di questi detenuti, ma avrebbe dovuto tener conto dei ripetuti allarmi di infiltrazioni mafiose della magistratura sarda ai massimi livelli. Da anni, ormai, non c’è un solo Procuratore Generale della Sardegna che non lanci un allarme esplicito sul grave rischio di infiltrazioni mafiose legate al grande baraccone della criminalità organizzata che si sposta al seguito del proprio capo, ampliando così la propria sfera d’azione. Ci sono parenti stretti e collaterali, famiglie intere, accoliti e attendenti dell’organizzazione malavitosa che si insediano a due passi dal carcere, proprio per tenere aperto il dialogo con i vertici delle organizzazioni criminali.

Faranno di tutto

Lo denunciò senza mezzi termini nel 2017, poco prima della sua morte, il Giudice Claudio Lo Curto, già Procuratore Generale reggente di Cagliari, uno dei magistrati più vicini a Borsellino e Falcone: «Con i 41 bis arriveranno i parenti, anche cinque o sei, e poi altre persone, che saranno sempre diverse. Arriveranno dieci o quindici giorni prima e se ne andranno anche dieci giorni dopo. Il tempo necessario per monitorare il terreno e allacciare amicizie, contatti. Si faranno conoscere, ricicleranno denaro, concederanno prestiti a tassi da usura, e magari, in seguito all'impossibilità di pagamento del creditore, rileveranno l'azienda». «Questi capimafia – fu il testamento di Lo Curto – avranno la necessità di reperire appartamenti a due passi dal carcere. L'obiettivo sarà duplice, interloquire con i capi dei capi e tradurre i messaggi in azioni, compresa l'occupazione di nuovi territori. Ricevere pizzini dai boss dietro le sbarre, scorgendo con un solo gesto, con una mimica facciale incodificabile, messaggi che in pochi o nessuno potrà tradurre. In Sardegna - spiegava - si assisterà ad un fenomeno per molti versi simile a quello emerso all'epoca dei soggiorni obbligati, con l'invio in terre illibate di esponenti di primo piano della criminalità organizzata. Far scontare le pene lontani dal territorio di riferimento è un errore madornale».

Sardegna discarica

L’esortazione di Gratteri, comprensibile dal suo punto di vista, è, dunque, per la Sardegna l’ennesimo pericolo, con l’eventuale arrivo nell’Isola di altri 92 boss da 41 bis, ovvero i padrini delle cosche più efferate, condannati al «fine pena mai». Con questa denuncia del Procuratore di Napoli ora c’è il rischio che a pagarne le conseguenze sia ancora una volta la Sardegna, chiamata ad “ospitare” da sola quasi metà dei capimafia italiani. Una sorta di mega discarica criminale-mafiosa, incuranti del fatto che la settimana scorsa, proprio Gratteri, ha sequestrato beni per ben 55 milioni di euro ad una società che opera, tra Campania e Sardegna, nel campo dei rifiuti e delle bonifiche. Un solo dettaglio la sede fiscale di quei signori è in un quartiere periferico di Assemini. A due passi da Uta.

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