«La Sardegna può diventare la regione capofila del progetto di elettrificazione di consumi», dice Francesco Venturini, amministratore delegato di Enel X, citando uno dei pilastri della transizione energetica, che si fonda sul progressivo utilizzo dell’elettricità da fonti rinnovabili in servizi e attività – come i trasporti, il riscaldamento degli ambienti e la produzione industriale – finora alimentati principalmente da combustibili fossili. Le basi di questo potenziale primato non sono però un motivo di vanto: poggiano, invece, su uno dei ritardi storici dell’Isola, ovvero il gap sul fronte del metano. Il gas naturale è stato un miraggio per decenni (e in parte lo è ancora), così ci siamo dovuti adattare. Per riscaldare l’acqua nelle case usiamo più lo scaldabagno elettrico delle caldaie e questa preferenza viene a galla in un dato: qui il 28% dei consumi complessivi di energia sono riferiti all’elettricità, contro il 21% della media italiana.

Il vero nodo sta nella produzione: secondo i dati diffusi da Enel X il 75% dell’energia elettrica che circola nelle reti sarde deriva da fonti fossili (carbone, petrolio) e solo il 25% da rinnovabili. «L’Isola non sta sfruttando adeguatamente le possibilità offerte dal mercato di oggi», spiega Venturini, in visita nella redazione dell’Unione Sarda. Come aumentare la quota di rinnovabili? Non certo con l’eolico off-shore o con l’invasione di pannelli nelle campagne. Semmai con l’installazione di impianti fotovoltaici sui tetti di palazzi, ville, capannoni, scuole e uffici. Organizzando e ottimizzando poi il consumo dell’elettricità prodotta con le Comunità energetiche, ovvero lo strumento su cui l’Ue punta per moltiplicare la diffusione dell’energia pulita. Singoli cittadini, condomìni, gruppi di aziende e Comuni possono installare i pannelli e creare delle piccole reti per un consumo “a chilometro zero”. «Si tratta di un’aggregazione di impianti e di consumatori finali che devono trovarsi in prossimità tra loro».

Qual è la distanza massima?

«Ci sono due vincoli. Il primo è quello della cabina primaria dell’alta tensione: ce ne sono 70 in tutta l’Isola e hanno un raggio d’azione di 20 chilometri. Il secondo paletto riguarda gli impianti: non possono essere superiori a un megawatt, una potenza che comunque è in grado di soddisfare il fabbisogno di 50 aziende di piccola o media dimensione».

Quali sono i vantaggi delle Comunità energetiche?

«L’elettricità degli impianti fotovoltaici ha due fonti di ricavo. La produzione viene remunerata a prezzi di mercato, che in questo momento sono alti. Poi, se quella energia viene consumata “virtualmente” dagli iscritti alla Comunità nelle stesse ore in cui viene prodotta, si riceve un incentivo che si va a sommare alla vendita».

E questi soldi chi li intasca?

«Ogni Comunità ha un proprio regolamento che ridistribuisce i ricavi. Può remunerare l’investitore che ha realizzato l’impianto fotovoltaico, il gestore e gli iscritti che hanno messo a disposizione il proprio consumo. Cioè le aziende, le pubbliche amministrazioni, i cittadini, anche chi non ha fornito gli spazi per i pannelli».

Quanto si può risparmiare?

«Fino al 15% dell’importo complessivo della bolletta. Ma ci sono anche altri vantaggi. Oltre all’aspetto economico e ambientale, c’è quello sociale».

Si spieghi meglio.

«Coinvolgendo le pubbliche amministrazioni si possono sfruttare i tetti degli edifici. Penso alle scuole: durante l’estate sono chiuse e dunque non consumano l’energia prodotta dai pannelli: i benefici si possono destinare alle fasce più povere della popolazione».

Questa è una scelta che spetta alla politica.

«Sì, ma ci sono già casi simili e stanno funzionando».

Quali sono i costi delle Comunità energetiche?

«L’iscrizione non comporta spese, però c’è un onere di gestione, che è sempre inferiore al beneficio garantito. Quando parlo del 15% di risparmio sulle bollette comprendo anche questi costi».

Le auto elettriche non sono ancora diffuse. Forse perché ci sono ancora poche colonnine per la ricarica?

«Nell’Isola ci sono 400 impianti già installati: rispetto al numero di auto elettriche in circolazione sono una marea. Da poco abbiamo vinto un bando regionale: ne realizzeremo altre 500. Ma la vera svolta arriverà quando si diffonderanno tra i privati e nelle aziende».

Come?

«Penso ai ristoranti o agli alberghi: possono installare le colonnine e vendere il servizio di ricarica, oppure se vogliono possono fornirlo gratis ai loro clienti. Attorno a questi temi si sta sviluppando un’area di business interessante».

La produzione industriale ha bisogno di energia stabile e sicura: non sembra un’esigenza compatibile con le rinnovabili.

«Stiamo lavorando alla conversione di diversi processi industriali, che abbandoneranno l’utilizzo di idrocarburi».

Un esempio?

«I caseifici. Solitamente usano gasolio per scaldare il latte al momento della pastorizzazione. Questo processo può essere garantito da impianti a pompa di calore. Il risparmio in termini economici può arrivare al 20%, soprattutto se l’energia viene generata da pannelli fotovoltaici».

Il futuro è l’idrogeno verde.

«Qui in Sardegna stiamo affiancando alcune aziende del settore ceramico, che hanno bisogno di alte temperature per le loro lavorazioni. Al posto dei combustibili fossili bruceranno l'idrogeno prodotto con gli elettrolizzatori. La conversione è necessaria se si punta alla sostenibilità. Un’azienda di questo tipo può evitare di immettere nell’ambiente 5mila tonnellate di Co2 all’anno».

Eolico off-shore: il mare dell’Isola rischia di essere sfregiato da centinaia di pale.

«Sono impianti che hanno bisogno di grandi fondazioni di cemento per funzionare bene, oppure di piattaforme galleggianti, che però sono meno stabili. Sono investimenti complicati, che noi non riteniamo sostenibili economicamente. Non a caso si fanno nel Mare del Nord, dove la profondità dell’acqua è molto inferiore rispetto al Mediterraneo e il vento è costante: per muovere pale di 150 metri non bastano le vostre maestralate».

Michele Ruffi

© Riproduzione riservata