Nel luglio del 1948 le campagne senesi erano attraversate da venti di rivolta.

In quei giorni d'estate Palmiro Togliatti, leader del Partito comunista, era stato ferito in un attentato e per migliaia di operai quello era stato il segnale che la rivoluzione non si poteva più rimandare. Poi – e qui la storia si confonde un poco con la leggenda – Gino Bartali vinse il Tour de France e questo, assieme al buonsenso della maggioranza degli italiani, contribuì a placare gli animi.

In questo clima arroventato nasce Omero Bastreghi, protagonista del coinvolgente romanzo di Silvia Cassioli "Il figliolo della Terrora" (Exorma, 2019, pp. 204). Omero è naturalmente il "figliolo" che dà il titolo al libro, un bambino cresciuto a pane e rivoluzione comunista. Una rivoluzione che, però, con il passare degli anni diventa un sogno e poi un desiderio che non si realizza mai.

Intanto, attorno a Omero, vediamo l'Italia cambiare, conoscere il benessere, incappare in crisi, rinascite e ricadute. Vediamo gli operai ibridarsi con la borghesia e perdere pian piano la loro identità. Vediamo le ideologie crollare. Soprattutto, seguendo la storia di Omero, incontriamo tre donne che paiono anche emblemi dei cambiamenti dell'universo femminile. Conosciamo la madre di Omero, la Terrora (per il suo carattere energico e indomito), al secolo Rosina Terrosi classe 1926 e di mestiere madre-operaia. E poi Giglia, studentessa emancipata e indipendente negli anni Settanta e infine Viola, porto sicuro per il protagonista e ancora, nuovamente e soprattutto madre. Tre donne, un uomo, una nazione da raccontare. Ma come è nato un romanzo in cui storie personali e la "grande storia" si intrecciano così fortemente?

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

"Il figliolo della Terrora - spiega Silvia Cassioli - nasce dalla voglia di raccontare qualcosa di più comprensibile dopo che avevo pubblicato un libro di poesia scritto interamente in una lingua inventata. L'idea mi è venuta durante un'improvvisazione di scrittura che anni fa facevamo con un gruppo di amici. Ho immaginato l'operaia Rosina Bastreghi detta la Terrora mentre dettava un verbale a un brigadiere. Sono partita da questo personaggio, da una battuta ("brigadiere, scriva") e da un rovesciamento (una donna che dà istruzioni a un carabiniere). Il resto ci si è attaccato intorno, e io ho fatto quello che si fa in questi casi: ho inventato, aggiunto, tagliato, e a un certo punto mi sono fermata. I cinquant'anni di storia che ho attraversato sono quelli attraversati dal protagonista, Omero Bastreghi".

Nel libro c'è molta attenzione alla lingua: il dialetto, espressioni forti del linguaggio popolare. Perché una scelta linguistica così accentuata e particolare?

"All'inizio del romanzo ho usato la lingua di tutta una comunità, il dialetto che ancora si parla a sud di Siena, che a poco a poco diventa la pasta con cui è impastato Omero, e non è più solo dialetto, ma la lingua della sua infanzia, percepita come un caos compatto, in cui le parole tendono ad appiccicarsi insieme, a grappoli. Crescere per Omero è affrancarsi da questo groviglio in cui non esistono confini precisi fra cose e parole".

Poi arriva l'italiano…

"Già, nella seconda parte, ambientata a Milano, c'è l’italiano che Omero si sforza di rendere corretto, la lingua dell'età adulta, quello con cui litiga guardando la televisione insieme alla moglie. Finché torna il dialetto dei parenti toscani, il residuo di cui non riesce a liberarsi. La storia di Omero è la storia di qualcuno per cui il bene assoluto è guardare lontano, e che finisce inghiottito dal proprio passato. Forse tutto il romanzo è la storia di questo fallimento. Una rivoluzione mancata. Che è politica, anche, ma prima di tutto è personale".

Il filo del racconto è tenuto dalle vicende di tre donne. Le descrive brevemente?

"La prima parte è dedicata alla Terrora, la madre operaia e battagliera che va a letto col padrone e partorisce il giorno stesso dell'attentato a Togliatti, quando nelle campagne in provincia di Siena sta per scoppiare la rivoluzione bolscevica. Poi c'è il primo amore di Omero, la Giglia, un continuo esasperante prendere e lasciare, dire e non dire, far aspettare. E Viola, la moglie timida che non riesce a essere se stessa e si ripara dietro agli altri. Tre donne diverse, la Rivoluzionaria, la Matta e la Santa, che raccontano anche tre diverse tappe esistenziali. Non so se sono rappresentative di generazioni di donne. Forse un po' sì".

Perché ha scelto queste figure femminili per sostenere l'architettura del suo romanzo?

"Sono partita dalla Terrora e il resto è venuto di conseguenza. Che siano tre donne non è così importante, potevano anche essere tre uomini. L'importante per me era che sulla pagina ci fossero prospettive diverse. Una corale, quando si parla di lotte operaie. E una più minimalista, quando è di scena il matrimonio e si aprono infiniti dibattiti su come si accende il gas, su cosa è meglio scongelare prima, questioni fondamentali di questo tipo... Le tre donne tengono insieme il tutto".

Cosa rimane oggi del mondo operaio che fa da scenario al suo romanzo?

"Le rispondo con l'immagine di cosa è diventato oggi il fabbricato che negli anni '50 era il pelificio Italpel, dove venivano lavorate le pelli di coniglio per dare cappelli e altro: una parte è cadente e in disuso, con dentro macchinari abbandonati e grossi mucchi di pelo imballato, mai utilizzato. Una parte è stata riconvertita a usi commerciali, con negozi italiani e cinesi. Una terza parte è stata resa abitabile e ci vivono famiglie di origine indiana che ci hanno ricavato anche un giardino variopinto, d'estate e d'inverno, con fiori veri e fiori di plastica. Del mondo rurale e operaio che ho raccontato forse resta questo, la memoria di chi c'era, delle storie ricreate che però non sono mai uguali a quelle che accaddero davvero".
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