Maria Rita Gismondo, ma è tornato l’allarme per il Covid?

«No! L’allarme è di alcuni colleghi “gufi” che alimentano pessimismo e panico. Lo è anche di una certa stampa in cerca di notizie attrattive e sappiamo che l’argomento lo è. Dobbiamo fare un doveroso distinguo. Covid è la patologia che il virus SarSCoV2 ha provocato negli anni 2020 e 2021. Il Covid, ovvero la malattia, non esiste più. Il virus continua a circolare e a infettare ma è una patologia completamente diversa. SarSCoV2 è un Coronavirus. Suoi stretti parenti circolano dando una sintomatologia simile, il comune raffreddore».

Nel suo “Ombre allo specchio”, lei racconta errori e successi, visti dal centro del campo.

«Sottolineo che il mio libro è stato pubblicato nel luglio 2020 e contiene quasi tutto quello che sarebbe accaduto dopo. Sono una veggente? No. Sono una virologa che, da sempre, è stata fedele alla scienza e non si è fatta guidare dalla politica. Chi ha studiato Virologia conosce bene alcuni concetti, come, per esempio che i virus cosiddetti ad RNA mutano molto facilmente, che i vaccini contro questi virus non riescono a fermarne l’infezione. Molti, soprattutto le istituzioni competenti, sapevano che il piano pandemico non esisteva. Sapevano ma, nel coro obbligatorio, non hanno parlato. Veda, io sono sempre stata una “pecora nera” nel branco».

Siamo stati investiti da qualcosa di imprevedibile oppure potevamo e dovevamo essere pronti?

«È arrivata una pandemia. Sappiamo che ogni dieci, vent’anni, ne arriva una. Ma ho sostenuto sempre che questa non sia stata una pandemia naturale. Quando ho dichiarato che questo virus era troppo diverso, che aveva caratteristiche strane, che non si riusciva a trovare, ancora oggi, l’animale che ce lo ha passato, sono stata fortemente criticata. Adesso lo afferma addirittura la CIA. Escludo sia stato diffuso deliberatamente, è scappato da un laboratorio. Lo ha affermato Montagnier, che certo non era l’ultimo degli scienziati. Comunque il disastro sarebbe stato evitabile se la sanità non fosse stata da più di vent’anni ridotta all’osso, se qualcuno non avesse “imposto” tachipirina e vigile attesa. Se i posti di terapia intensiva fossero stati almeno il doppio».

Quando ha capito che stavamo per essere travolti?

«Aprile, maggio 2020. Non avevamo nulla, affrontavamo il virus a mani nude».

Leviamoci il dubbio: il vaccino uno, due, tre e quattro, ci ha salvato nel complesso oppure ci siamo fatti iniettare qualcosa di non testato?

«Non ho timore, come sempre, a esprimere le mie idee che non pretendo siano sempre giuste. Ci trovavamo in un momento tragico. Bisognava tentare di fare qualcosa. Come ho detto prima, sapevamo – ma non si poteva dire – che non avremmo avuto un vaccino efficace in quanto tale. Piuttosto avremmo potuto tentare di alleviare il colpo. Aver somministrato un vaccino, anche se per alcuni aspetti non del tutto conosciuto, è giustificabile. Ciò che non ho mai accettato è stato la presunzione con il quale è stato imposto, l’aver scartato qualsiasi altro vaccino, focalizzandosi solo su una tipologia. Perché non vaccinare con vaccini “tradizionali” che usiamo da cento anni? Perché far firmare una falsa liberatoria? Firmavamo di aderire volontariamente ma era obbligatorio! Perché vaccinare i ragazzini che non sono stati colpiti dalla pandemia, fatta eccezione dei deboli, o i malati cronici? Perché il green pass, che è stato responsabile di un aumento dei contagi? Perché? Qualcuno, non cito il nome, aveva stabilito che possedere il green pass, ovvero essere stati vaccinati, ci aveva reso liberi. La gente con il green pass entrava nei ristoranti, andava in palestra, sicura di non contrarre l’infezione e perciò veniva meno alle misure di prevenzione. E poi si beccava il virus!».

“La gente muore mentre cammina, poco prima stava bene”: lei sta dalla parte di quella parte di Paese che demonizza il vaccino oppure si moriva prima per le stesse cause?

«È indubbio che questo Paese ha volutamente ignorato gli effetti collaterali. Oltre che un’ingiustizia, anche uno spreco scientifico. Vede, studiare gli effetti avversi fortifica la ricerca. Ma sembra che non interessi. A livello internazionale si è avuto un sensibile aumento dei casi di tumore. Non abbiamo elementi per attribuirlo al vaccino. Ricordiamo che per due anni la sanità è stata ferma e la prevenzione e la cura sono stati praticamente annullate. Quanti tumori avremmo potuto diagnosticare in tempo? Due anni in queste malattie sono tanti, troppi!».

Cosa è il bioterrorismo?

«Le do una risposta sintetica ma meriterebbe interi volumi. In breve, è l’utilizzo di sostanze biologiche e microrganismi per attentati terroristici».

“Lasciate in pace i ragazzi”, ha detto l’altro giorno in tv.

«E lo ripeto, in continuazione. Sono stati devastati. Gli ambulatori di psicologia e psichiatria sono affollati da adolescenti. Sono frequenti i tentativi di suicidio, in aumento del 30% anche gli autolesionismi, la violenza. Pensavamo che chiusi a casa con i social, e privandoli della socializzazione, non avremmo avuto conseguenze? Adesso qualcuno vuole imbavagliarli con le mascherine. A scuola. Dopo escono e, per fortuna, senza mascherina, stanno tutti insieme. Perché la mascherina a scuola? Per non perdere quel senso di paura da strumentalizzare?».

Come è cambiata la sua vita, lei che opera a Milano, dopo la Grande Emergenza?

«In due anni è come se ne fossero trascorsi venti. Notorietà tossica. Sono praticamente stata privata della mia privacy. I giornalisti persino sotto casa. Impossibile andare in un ristorante o prendere un treno senza essere fermata. Forse a qualcuno piace – e lo sappiamo! – ma a me no. Va bene essere intervistati se si dicono cose sensate e soprattutto utili, ma non poter uscire da casa per andare al supermercato con una tuta da ginnastica è troppo. Per ovviare a questo fenomeno, ho cambiato occhiali e pettinatura. Ma poi recentemente sono tornata in televisione…e ho paura che dovrò nuovamente cambiare! Non è stato solo questo effetto. Ho subito un maschilismo che non immaginavo esistesse nella grande Milano, dove appunto risiedono le principali testate dei media. Un esempio? Il mio titolo è professoressa, ricoprendo la cattedra di Microbiologia clinica presso la Facoltà di Medicina dell’Università Statale di Milano. Ebbene tutti, dico tutti, continuano a chiamare me con il titolo di dottore e miei colleghi sono tutti prof! Un altro esempio? Continuano a parlarmi del professor Galli come mio “capo”. Falso. Entrambi, ora lui è in pensione, direttori di Unità Complesse, lui di Malattie Infettive, io di Microbiologia Clinica, Virologia e Biomergenze del “Sacco”».

Il governo. Durante e dopo la pandemia, come ha operato? La prefazione del suo libro è dell’ex viceministro della Salute.

«Sileri è un grande! Ha pubblicamente denunciato che il ministro non lo metteva a conoscenza di molte sue decisioni, che lo hanno praticamente mobbizzato, negandogli per un certo tempo di pagare le persone della sua segreteria. Ha mantenuto la promessa, senza farsi ammaliare dalle sirene della politica. Finito il mandato, è tornato a fare il chirurgo. Abbiamo avuto sempre un ottimo rapporto e ha avuto il coraggio di scrivere la prefazione del mio libro, anche se conosceva i rapporti non idilliaci tra me ed il ministro Speranza. Ho apertamente criticato l’intero operato del ministro Speranza e oggi ne sono più che mai convinta. L’elenco dei suoi malefatti sarebbe troppo lungo. Un voto? Ampiamente insufficiente».

Lei ha diverse lauree, dirige una strutta complessa di un ospedale a Milano, ha una serie imponente di specializzazioni, un oceano di competenze complesso perfino da attraversare. Che effetto fa davanti alla tv sentire attori, cantanti, influencer ahimè, dare consigli sulle epidemie?

«Credo che ognuno debba fare il suo mestiere. Le confesso che non bisogna solo pensare a quelle categorie, ci sono miei colleghi che non sono mai entrati in un laboratorio, o in un reparto di malattie infettive, che sono diventate star anche televisive. Il parametro di selezione? Essere filogovernativi».

Cosa sogna?

«Per decenni ho sognato di condurre ricerche scientifiche i cui risultati fossero utili, di far bene il mio lavoro, all’ospedale o all’università. Oggi mi fa sognare solo la ricerca, che resta nel mio DNA. La sanità pubblica non mi fa più sognare e la lascerò fra un anno. Se ci sarà la possibilità di utilizzare la mia esperienza fuori dall’ospedale – non cariche politiche, please – sarò disponibile. Lo confesso per la prima volta: l’ospedale comincia a pesarmi. La sanità di oggi non mi appartiene. Ho sempre voluto fare il medico, sin da bambina, con l’orgoglio di poter fare del bene agli altri. Io intendo il medico come colui che è consapevole che il suo paziente ha bisogno di capire, di parlare, di essere rassicurato, un professionista che non guarda l’orologio, che è disponibile anche, a volte, a telefono, mentre è in vacanza. Quello che, se qualcuno sta male, in treno, in aereo, in strada, si presenta e soccorre. Quello che dedica un po' delle sue ferie per volontariato dove c’è bisogno. Colleghi cosi ce ne sono sempre meno e l’ambiente è cambiato. Non posso accettare che ci sia un limite di tempo per una visita medica! Mi frullano in mente delle idee che, chissà, dovesse rincontrarmi, le dirò in seguito. Qualche sera, con la comprensione di tutti, vado a ballare in milonga e mi fa un gran bene, al fisico ed all’anima».

Enrico Pilia

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