Ci ha provato ventidue volte, senza riuscirci (meno male). Per carità, a volte erano  tentativi goffi, e lo capiva pure lui che l’idea della saponetta su cui scivolare non sarebbe stata quella buona. Un’altra però, morto sembrava davvero, e si era sorpreso a scoprire che la colf anziché chiamare la polizia o un’ambulanza, dopo averlo strattonato a più riprese senza che lui si svegliasse, aveva rimesso a posto casa, comprato un garofano rosso e, infine, aveva pianto per lui. 

Andrea Pinna racconta la sua malattia con leggerezza durante la chiacchierata con Lorenzo Paolini e Leonardo Tondo, nella sede dell’Unione Sarda a Cagliari, per la presentazione del suo ultimo libro “Il mio lato B(polare)“, appena pubblicato da HarperCollins Italia. Forse, a salvare il creator cagliaritano sono state sì, una diagnosi corretta -disturbo bipolare - e la terapia giusta, ma anche la sua ironia. La sua capacità di sorridere dei guai, più o meno spaventosi, che la vita si diverte a distribuire a caso, e sempre quando meno te lo aspetti.

«Un’arguzia leggera», l’ha definita Paolini, direttore editoriale del quotidiano sardo, che illumina il racconto sincero dell’influencer, noto al grande pubblico per “Leperledipinna“, una pagina Instagram con quasi 500 followers, e altre pubblicazioni. Il suo è stato «un viaggio sulle montagne russe», suggerisce la quarta di copertina: dall’eccitazione alla depressione, un saliscendi di up e down, com’è tipico del disturbo bipolare. Se adesso il viaggio è terminato, e procede su binari più placidi, il merito – riconosce Pinna - è di Leonardo Tondo, noto psichiatra, ordinario di Psichiatria e direttore del Centro Bini a Cagliari.

Il trentasettenne è all’apice del successo quando comincia a star male, molto male. Allucinazioni, attacchi di panico, manie di persecuzione. Qualcosa non va. Una volta si fa recapitare sei bottiglie di vino bianco perché non può mica lasciare senza niente Brad Pitt, Cate Blanchett, Gina Lollobrigida. C’è pure Tom Cruise a casa sua ma se ne sta in un angolo e non se lo fila, invece, la diva italiana vuole che gli faccia un caffè. Un’altra si fa Milano, dove abita, a piedi in pigiama; spesso regala i soldi che ritira in banca, oppure  fa mance da oligarca russo ai rider che gli consegnano cibo e bevande, vino preferibilmente. «Quando stai male non sai cosa succederà non dico domani, ma le prossime due ore. Se ti ubriachi invece, lo sai e questo mi tranquillizzava». In questo modo concedeva un po’ di tregua anche a chi gli stava vicino, o ci provava: la famiglia, gli amici, ma anche i poliziotti che cercava spesso per denunciare Tizio che voleva fargli del male, o Caio che lo braccava. «Signor Pinna, è lei?», quelli ormai riconoscevano i suoi deliri. 

Non si può non sorridere con Andrea Pinna, o non empatizzare con il suo dolore, perché nel racconto, a dispetto della leggerezza, si avverte tutta la  difficoltà legata alla malattia mentale. Una condizione subdola perché spesso è latente, si affaccia all’improvviso e ti ruba la vita. Anzi, peggio: ti ruba l’identità.

«Ho praticato l’autodistruzione» dice Pinna,  e ammette di aver abusato di alcol, droghe, di aver tentato seriamente di uccidersi, come quella volta che era salito sul cornicione, e meno male che non ha avuto il coraggio perché se poi di lì, dopo che si era buttato, fosse passato un bambino… no, meglio di no. 

Una persona che si adopera attivamente per togliersi la vita è una persona che ha un disturbo psichico, e ha un disperato bisogno d’aiuto. Pinna lo ha capito: è andato in clinica, ha seguito la terapia farmacologica: «Un abbraccio non basta», e adesso tiene a bada l’altalena dell’umore. 

Se ha deciso di raccontare questa storia, dice, è per smontare lo stigma della malattia mentale, e per suggerire che chiedere aiuto può salvare la vita.  

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