«Cara Unione,

sono un infermiere cagliaritano e scrivo per portare all’attenzione una vicenda che ha a mio avviso dell’inverosimile. Ma per spiegarla appieno dobbiamo tornare indietro di pochi anni.

Svolgevamo con tenacia e determinazione il nostro lavoro quando la pandemia da Covid-19 si è abbattuta sulle nostre vite e su quelle di tutto il Pianeta. Si era in guerra e, si sa, in guerra si fa di tutto. Fedeli al nostro ruolo, piccoli soldati in mezzo a una battaglia sanitaria, abbiamo ceduto: dovevamo spostarci, per contenere l’emergenza e dare il nostro supporto, in un altro ospedale. Poi, una volta rientrato l’allarme, saremmo tornati al nostro ruolo originario: questo era il piano.

Il problema è che ad oggi nessuno ha tenuto fede a questa promessa di rimandarci a casa. E nessuno si preoccupa nemmeno del fatto che senza il nostro consenso ci sia stato quello che è uno spostamento che ha il sapore del “per sempre”.

Tutto ciò assume i contorni di un’ingiustizia incredibile, perché la nostra devozione al lavoro ci ha portati a un compromesso che doveva essere a termine, a tempo, non a mandare giù bocconi amari.

Stiamo rischiando esaurimenti nervosi e sindrome da burnout. Ma soprattutto, stiamo rischiando di perdere l’amore per un lavoro dove l’umanità e l’empatia fanno la differenza persino tra la vita e la morte.

Grazie per l’attenzione».

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