"Cara Unione,

'Il Cagliari ha vinto lo scudetto, i rossoblù sono campioni d’Italia'. Ecco cosa si leggeva il 12 aprile 1970, sotto l’enorme 'Campioni d’Italia' della prima pagina de L’Informatore del lunedì. Cinquant’anni dopo, tutto è cambiato, ma nulla ha scalfito quell’orgoglioso senso di appartenenza, quel legame nei confronti di una squadra che ci rappresenta come ha fatto in quella magica circostanza. Certo, la festa è resa surreale da questa maledetta emergenza, che ha mandato in stand-by le nostre frenetiche vite e ci ha fatto precipitare nella fragilità e nella preoccupazione. Ma chissà quanti, come me, dietro una mascherina, hanno attraversato la città deserta, hanno raggiunto il tabacchino di fiducia, e se lo sono trovati lì, Gigi Riva, sulla prima pagina dell’Unione Sarda, la mano destra sollevata in segno di saluto in mezzo ad uno stadio straripante, e chissà quanti, almeno per un momento, si sono immaginati di essere catapultati proprio in quell’attimo in cui veniva fatta la storia.

Io, lo scudetto, lo posso immaginare soltanto, ricostruito attraverso vecchie foto che circolano sui giornali e video sgranati trasmessi sui social o sulle televisioni. Tante persone, proprio come me, lo hanno solo sentito raccontare, dai parenti ai pranzi di famiglia o dai protagonisti nelle interviste. Eppure è come se lo avessimo vissuto un po’ anche noi, che abbiamo imparato fin da piccoli l’arte della spregiudicatezza e del compromesso, ma sappiamo che la storia, quantomeno della nostra squadra di calcio, l’hanno scritta uomini che hanno lottato per una terra che non faceva nessuna promessa, ai margini del Paese.

All'epoca la Sardegna era un baluardo lasciato lì, in mezzo al mare, da qualche dio minore che l'aveva plasmata col sole e i sassi pieni di muschio scarnificati dal vento, terra di pastori e banditi, da evitare come un flagello inimmaginabile. Così la vissero molti dei protagonisti dell’impresa, prima di approdare. Ma poi tutto cambiò, e molti, che mai sarebbero voluti arrivare, non se ne sono mai andati.

A portare il vessillo della squadra che ruggiva al grido di 'pastori' lanciato con offesa dal pubblico avversario fu l’indimenticabile Gigi Riva. Guai a chiamarlo eroe, come ha più volte ribadito. Chiamiamolo almeno campione, che non vuol dire solo “abile calciatore”, diciamo pure “fuoriclasse”, ma vuol dire tutto questo condito con la sua capacità di essere uomo, un uomo silenzioso, apparentemente aspro, coraggioso abbastanza da fare del suo lavoro la sua famiglia, la sua casa, la sua gente. Orfano adottato dalla nostra regione, ha restituito tutto con gli interessi, scegliendo quest’isola come teatro delle sue imprese e della sua quotidianità.

Un’isola dimenticata da tutti, dicevamo. Quello scudetto ebbe proprio il merito di accendere i riflettori su una realtà in cui si viveva il vero significato della difficoltà, della povertà, del sacrificio e, purtroppo, della discriminazione. I sardi di quell’anno poterono urlare con forza di essere orgogliosi, sì, di essere sardi, moltiplicandosi progressivamente nello stadio Amsicora, divenuto l’arena in cui combattere una battaglia per l’affermazione, per gridare, non più timidamente, 'ci sono anch'io'. Lo fece grazie a loro, quei giovani che, come dice Riva, hanno scelto di essere sardi pur non essendoci nati, prima inconsapevolmente, poi consapevolmente.

È meglio chiuderla qui, onde evitare di crollare in un’inutile retorica che spazzerebbe via tutta la magia di quell’impresa, l’impalpabile orgoglio che si porta dietro da cinquant’anni. Non vorrei rischiare che si dica che ci si rifugia nel passato senza prospettive sul presente, come se l’orgoglio per quello che si è stati non possa essere un vantaggioso stimolo per sapere chi vorremmo essere domani.

Chiudiamola così, con un viaggio in quell’indescrivibile atto, lasciando fare alle emozioni quello che non saprebbero fare in modo soddisfacente le parole: Cagliari-Bari, 2-0, gol di Riva al 39’, chiude Gori all’88’. Campioni d’Italia".

Fanny Boninu - Nuoro

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