L a giustizia nella sua umana imperfezione può causare più vittime, una volta per mano di chi uccide e un’altra per l’ingiustizia che non dà pace a chi resta. Questo insegna la tragica fine di Martina Rossi e il dramma dei genitori di questa povera figlia che la sera del 3 agosto 2011 a Palma di Maiorca, dove si trovava in vacanza, nel disperato tentativo di sottrarsi allo stupro da parte di due giovani toscani cadde dalla terrazza dell’albergo che l’ospitava e morì. I responsabili furono condannati in primo grado a sei anni che la Cassazione ridusse a tre perché il reato più grave (quello di omicidio) come conseguenza di altro reato era caduto in prescrizione, misura inevitabile quando i tempi della giustizia vanno oltre le calende repubblicane. I colpevoli son finiti in carcere e presto rilasciati con l’obbligo di svolgere lavori socialmente utili, una misura alternativa al carcere per facilitare il reinserimento nella società. I genitori della povera Martina non chiedono vendetta ma giustizia: “non hanno mai chiesto neppure scusa, che scontino la pena in carcere”. Come dar loro torto! Non solo non c’è la resipiscenza che conduce al possibile reinserimento sociale ma manca anche la pena. È da capire l’indignazione che aggiunge dolore al dolore dei genitori di Martina e lo sconcerto di chi ricorda Cesare Beccaria e la certezza della pena.

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