Operatore ecologico al posto di spazzino. Oppure collaboratore scolastico invece di bidello, per arrivare al militare che diventa un molto più presentabile operatore di pace; sono tutti esempi di politicamente corretto applicati al linguaggio.

La tendenza politically correct, per dirla all’inglese, non si ferma però alle parole ma si estende all'uso che ne facciamo, al modo in cui esprimiamo le nostre idee e a come ci rapportiamo con la realtà che ci circonda.

Intendiamoci, rispetto e correttezza nel linguaggio e negli atteggiamenti sono non solo importanti ma addirittura imprescindibili. Oggi però il filtro del politicamente corretto rischia di diventare troppo "fitto", così fitto da impedire alle idee di passare, di diffondersi.

L'antropologo americano Jonathan Friedman, nel suo discusso ma incisivo saggio "Politicamente corretto" (Meltemi editore, 2018, pp. 324, anche Ebook), definisce questa tendenza un conformismo morale che diventa un regime. Un regime che impone un pensiero unico e dominante.

Insomma, il politically correct, per Friedman, da garanzia contro discriminazioni e pregiudizi si è trasformato in un mantra della nostra epoca, una forma di comunicazione per cui ogni espressione, dichiarazione, giudizio va soppesato attentamente in modo da non offendere e non mettere a disagio nessuno.

Nelle sue forme più ultras, quelle che tanto piacciono ai salotti intellettuali e alla sinistra radical chic, può diventare uno strumento per tacciare di razzismo, fascismo, qualunquismo, insomma di ogni "ismo" possibile e immaginabile, chiunque non segua il mainstream progressista su tempi etici, multiculturalismo, globalizzazione e immigrazione.

Per l'antropologo americano siamo quindi di fronte a una vera e propria dittatura che mette a rischio libertà di pensiero e di espressione. Una dittatura che limita i campi di ricerca degli intellettuali, preoccupati fin troppo di non finire alla gogna mediatica e social di moderni inquisitori e moralisti 2.0.

Per Friedman viceversa proprio un mondo complesso come il nostro, improvvisamente multiculturale e sottoposto alle sfide dei flussi migratori, ha bisogno di pensieri coraggiosi e alternativi. Ha bisogno di discussioni aperte senza trascendere in "guerre di religione" e in continui "muro contro muro".

Porre domande, non nascondere i problemi che stiamo vivendo ci trasforma veramente tutti in orchi o peggio in razzisti della peggior specie? Oppure il politically correct ci sta trasformando in struzzi che in nome del quieto vivere e della forma mettono la testa sotto la sabbia?

Il libro di Friedman risponde a queste domande e lo fa in modo anche contestabile e sicuramente molto poco politically correct. Tacciare però le idee dell'antropologo americano di fascismo o altro senza averle lette oppure pretendere che non le esprima è anche questa una forma di discriminazione.
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