Mobbing, stalking, jobs act, spending review, master e tutor… nell’era di Internet le parole inglesi si stanno diffondendo a macchia d’olio nella nostra lingua e nel nostro uso quotidiano senza che si cerchino più adattamenti e alternative nostrane. Il risultato è che oramai in molti ambiti mancano le parole per “dirlo in italiano” e si ricorre agli anglicismi, spesso usati in maniera approssimativa, “maccheronica” dato che non sempre si è consapevoli del corretto significato nella lingua inglese.

Il rischio è di parlare l’itanglese, un idioma che sta lentamente svuotando l’italiano rendendolo più povero. Forse è venuto il momento di provare a mettere un freno a questa moda un po’ sciocca di farsi sedurre da ogni termine anglosassone quasi che questo ci rendesse più alla moda e più moderni. Insomma Diciamolo in Italiano, è questa l’esortazione che fa da titolo all’interessante saggio (Hoepli, 2017, Euro 14,99, pp. 264. Anche EBook) dato recentemente alle stampe da Antonio Zoppetti:

Il mio è un invito a superare una certa sudditanza nei confronti dell’inglese, una sudditanza che ci sta portando a importare anglicismi come mai è avvenuto nella nostra lingua. Questo sta facendo regredire il lessico in italiano, non si inventano nuove parole, non ci si sforza di creare neologismi. Numeri alla mano, dal 1990 al 2017 gli anglicismi in un dizionario come il Devoto-Oli sono più che raddoppiati passando da 1600 a 3400 circa.

Anche la loro frequenza d’uso è aumentata e stanno penetrando profondamente nel linguaggio comune. Se guardiamo ai maggiori dizionari dal 2000 in poi la metà dei nuovi termini è costituita da parole inglesi. Eppure tradurre si può. Pensiamo al mouse del computer… in spagnolo si usa “raton”, in francese “souris”. Invece noi abbiamo preso l’inglese e stop.

Come mai questa tendenza molto italiana?

"Un primo motivo è legato proprio alla nostra scarsa conoscenza dell’inglese. Secondo i dati Istat solo il 34% degli italiani è in grado di sostenere una qualche conversazione in inglese. Alla fine facciamo quindi come Alberto Sordi in Un americano a Roma e ci riempiamo la bocca di anglicismi. Ostentiamo una conoscenza che non abbiamo. Solitamente chi conosce bene una lingua non la ostenta e non la usa a sproposito".

Quanto conta una certa sudditanza nei confronti della cultura anglosassone?

"Sicuramente conta perché abbiamo sviluppato nel secondo Dopoguerra una cultura musicale, cinematografica e televisiva molto americana e inglese. A questo si aggiunge la fragilità della lingua italiana, una lingua che viene parlata comunemente da meno di un secolo. Prima si usavano quotidianamente i dialetti e l’italiano era relegato alla sfera letteraria".

Come invertire la rotta?

"Intanto bisogna cambiare mentalità e smettere di pensare che l’inglese è una moda passeggera, che molti anglicismi entrano nella nostra lingua per poi essere abbandonati in fretta. Oggi il mondo è quello della globalizzazione, dove l’inglese ha un ruolo notevolissimo. La nuova prospettiva è il rapporto tra locale e globale: dobbiamo evitare che l’italiano si contamini e diventi un dialetto d’Europa, dobbiamo difendere il nostro patrimonio linguistico esattamente come proteggiamo l’eccellenza della nostra gastronomia e degli altri prodotti culturali. Credo semplicemente che sia necessario recuperare un certo orgoglio per la propria lingua come avviene in altre nazioni europee".

Proibiamo l’inglese?

"No, però smettiamola di considerare più raffinato dire make-up al posto di trucco oppure meeting al posto di incontro. E ci deve essere il coraggio di fare gesti concreti. In Francia non si possono usare termini non francesi nei documenti pubblici. In Spagna lo Stato investe moltissimo nella promozione della lingua spagnola. In Germania, paese che ha un problema simile al nostro, le associazioni dei consumatori sono riuscite attraverso la protesta a far cambiare il linguaggio delle Ferrovie tedesche facendo tornare i termini originari. Perché noi dobbiamo avere l’economy, la business class e non la prima o la seconda classe come è sempre stato?".

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