Si allontana velocemente dall'aula stracolma di cronisti passando da un'uscita laterale, scortato dai suoi carabinieri. "Io non voglio commentare, parla tu", dice al suo difensore, l'avvocato Basilio Milio, al quale, subito dopo la lettura del verdetto che l'ha assolto, ha stretto forte la mano e fatto i complimenti. L'espressione del volto è quella di sempre: raramente in cinque anni di processo e oltre cento udienze il generale dell'Arma Mario Mori ha tradito emozioni. Anche se cosa pensasse dell'accusa di favoreggiamento alla mafia che l'ha inchiodato non faceva mistero. Come espliciti erano i giudizi - durissimi - verso uno dei suoi principali accusatori, Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo con cui, secondo il racconto dell'accusa, avrebbe tramato e stretto il patto che voleva il boss Bernardo Provenzano libero in cambio della fine delle stragi e dell'arresto dei latitanti. Un millantatore, un teste inattendibile, questo per il generale, anni da vicecomandante del Ros e da capo del Sisde, era Massimo Ciancimino. Giudizi che, almeno dalla prima lettura del verdetto, condividono i giudici palermitani che hanno assolto l'ufficiale e il suo coimputato, il colonnello Mauro Obinu, dall'accusa di avere volutamente fatto fallite il blitz che, il 31 ottobre del 1995, avrebbe potuto portare alla cattura di Provenzano. I dubbi su Ciancimino jr del collegio presieduto da Mario Fontana, magistrato di grande esperienza nei processi di mafia, si leggono evidenti nella decisione di trasmettere gli atti alla Procura perché valuti le dichiarazioni rese dal figlio di don Vito nella testimonianza al processo Mori. Tradotto: siano i pm, gli stessi che l'hanno considerato teste attendibile, ad accertare se Ciancimino ha mentito o calunniato gli imputati. Stesso trattamento per l'altro testimone chiave del dibattimento, l'ex colonnello Michele Riccio, il primo a parlare del mancato blitz di Mezzojuso, quando il Ros sarebbe stato a un passo dal capo dei capi di Cosa nostra e avrebbe preferito non intervenire. Anche per lui è stata disposta la trasmissione degli atti alla Procura. Ma con l'assoluzione di Mori, che per i pm avrebbe lasciato scappare il boss per onorare il patto siglato nel '92 tra pezzi dello Stato e la mafia, una pesantissima ipoteca finisce per gravare sul cosiddetto processo sulla trattativa, appena cominciato in corte d'assise a Palermo. Un dibattimento in cui Mori è di nuovo protagonista, che si è intrecciato costantemente con quello sul mancato blitz del '95, e che con questo ha finito per sovrapporsi, tanto da non essere più tanto chiaro quale fosse l'oggetto delle nuove accuse formulate dalla procura al generale. Soprattutto quando la trattativa, da scenario e contesto del mancato blitz, è assurta ad aggravante del reato di favoreggiamento contestato a Mori nel processo terminato oggi con l'assoluzione. Sulle conseguenze che questa assoluzione avrà sul dibattimento sulla trattativa la Procura è cauta ed evita prese di posizione precise. "Siamo amareggiati. Adesso si tratta di capire i punti di vista di chi, come il Tribunale, ha analizzato le carte. In tutti i processi si può vincere e si può perdere ma sono importanti le motivazioni", commenta l'aggiunto Vittorio Teresi. Mentre il pm Nino Di Matteo, che aveva chiesto la condanna del generale a 9 anni, annuncia che impugnerà la sentenza. Al di là dei commenti espliciti in Procura a lasciare perplessi è, però, la formula usata dal tribunale: quella dell'assoluzione perché il fatto non costituisce reato, formula che esclude il dolo. Dubbi e interrogativi che solo le motivazioni della sentenza - attese tra 90 giorni - chiariranno. Oggi resta la certezza dell'assoluzione che - dice l'avvocato Milio - "pone fine al massacro mediatico delle figure di Mario Mori e Mauro Obinu".
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