Salì sul palco di Sanremo che sembrava un ragazzino, ma in realtà quella sera Vasco Rossi aveva già alle spalle trent’anni di vita più o meno spericolata (li avrebbe compiuti due settimane dopo, per la precisione) e quattro album. Eppure fino al debutto al Festival con “Vado al massimo”, di cui in questi giorni ricorre il quarantesimo anniversario, la sua carriera viaggiava ancora col freno a mano. A pensarci adesso, niente sembra più lontano di lui dalle atmosfere sanremesi degli anni Ottanta: con le scenografie stucchevoli, Pippo Baudo a garantire il registro nazional-popolare (anche se nel 1982 i presentatori erano Claudio Cecchetto e Patrizia Rossetti), e il playback che impacchettava il tutto in una sorta di cellophane sonoro, dove la trasgressione non era prevista. E invece la partecipazione alla gara gli cambiò la vita.

Rossi non vinse, com’è noto, anzi finì all’ultimo posto nella serata conclusiva, dominata da Riccardo Fogli con “Storie di tutti i giorni”. Tecnicamente non fu l’ultimo assoluto, visto che otto cantanti erano stati eliminati nei giorni precedenti (tra cui Claudio Villa, che non la prese proprio bene: portò la cosa dal pretore e arrivò a un passo dal far sospendere la finale). Ma insomma, non si piazzò bene. Del resto il suo brano non è poi passato alla storia tra quelli più emozionanti della sua carriera. Ben altra cosa la già citata “Vita spericolata”, con cui si ripresenterà all’Ariston l’anno dopo, senza però migliorare di molto il risultato: penultimo.

L’affondo contenuto nel testo

Nella sua semplicità da reggae padano, comunque, “Vado al massimo” nasconde un’indole da canzone polemica, se non proprio di protesta. “Meglio rischiare – diceva – che diventare come quel tale/Quel tale che scrive sul giornale”: anche tra i fans di Vasco, molti ignorano l’identità di “quel tale” sbeffeggiato dal palco. Ma non è un mistero: era Nantas Salvalaggio (Venezia, 1923-Roma, 2009), che più di un anno prima aveva dedicato a Rossi un articolo pesantissimo, non una critica artistica ma una stroncatura morale, personale, in cui gli dava del drogato senza tanto parafrasare.

Era nato tutto da una delle primissime apparizioni del rocker di Zocca su quello che allora si chiamava il primo canale tv. Il 14 dicembre 1980, nel pomeriggio formato famiglia e iper rassicurante di Domenica In, aveva fatto irruzione un Vasco Rossi ancora molto di nicchia, con un brano destinato a lasciarsi dimenticare, “Sensazioni forti”. Uno scatto non banale nella carriera di quella giovane promessa, che per la prima volta poteva raggiungere un pubblico di svariati milioni di telespettatori.

Tra quei milioni c’era anche Salvalaggio, giornalista e scrittore molto noto anche per le sue frequenti presenze da opinionista televisivo: se all’epoca ci fosse stato già Porta a porta, ci avrebbe trasferito la residenza. Incarnava il buon senso conformista di un’Italia che si avviava a reagire col cosiddetto “riflusso” leggero degli anni Ottanta alla pesantezza degli anni di piombo.

Lo scrittore e giornalista Nantas Salvalaggio nel 1998 (foto da Wikipedia)
Lo scrittore e giornalista Nantas Salvalaggio nel 1998 (foto da Wikipedia)
Lo scrittore e giornalista Nantas Salvalaggio nel 1998 (foto da Wikipedia)

Quella domenica Salvalaggio accese la tv, vide Vasco Rossi e inorridì. Nel successivo appuntamento con la sua rubrica settimanale su “Oggi” demolì la figura di Rossi. Se si fosse limitato a scrivere che “Sensazioni forti” era una brutta canzone, sarebbe stato anche difficile dargli torto. Invece sparò ad alzo zero contro il cantante, definito in prima battuta “un bell’ebete, anzi un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumé dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato fatto”. E poco più in là “un barbone da suburra, un rottame umano”.

Pensava che la sua musica incitasse i giovani a drogarsi. “Era una visione così sgradevole, un messaggio talmente abbietto”, si legge ancora nell’articolo. E poi: “Immaginavo le centinaia di migliaia di ragazzini imberbi, succubi, che dalla tivù bevono tutto quello che viene, come fosse rosolio”. Il riferimento al rosolio rivela l’epoca da cui proveniva Salvalaggio, che pure in quel momento, a dispetto dei suoi toni ottocenteschi, aveva solo 58 anni: per dire, Jovanotti nel 2022 ne compirà 56. Ma erano altri tempi. E dire che nella sua carriera da giornalista aveva visto di tutto: era stato corrispondente dalle grandi capitali, fondatore di Panorama, e spedendo un mazzo di rose rosse – così si narra – aveva strappato un’intervista esclusiva a Marilyn Monroe (cosa che, secondo Wikipedia, gli aveva procurato una telefonata di insulti invidiosi da Oriana Fallaci).

Eppure, quella canzonetta banale era bastata a scandalizzarlo. “Quando faremo un’indagine seria, un calcolo approssimativo”, scriveva ancora nella rubrica, “di tutti i giovani che si sono procurati un passaporto per l’altro mondo sulle orme dei cantori dell’eroina, come quel tale Lou Reed, che a Milano si pronuncia giustamente Lùrid?”. Per poi rivolgersi addirittura alla commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai: “Chi ha chiamato quel povero guitto da suburra? Quale partito politico, quale vescovo o notabile o senatore, ha raccomandato il Vasco suonato?”

L’attesa della vendetta

Quest’ultimo, meno suonato di quanto sembrasse, non replicò agli attacchi. Ma la vendetta è un piatto che si consuma freddo. Approdato a Sanremo, Rossi sfruttò l’occasione per prendersi una rivincita. Anche nella seconda parte della canzone, dopo che “vado al massimo” diventa “vado in Messico”, arriva un nuovo sberleffo: “Voglio vedere se là davvero si può volare/senza rischiare di cadere/D’incontrare sempre, sempre quel tale/quel tale che scrive sul giornale”.

La memoria della rete non ci rivela, oggi, se vi fu mai una riconciliazione tra i due. La risposta di Vasco, per altro, era giocata su un registro ironico, rispetto alla durezza dell’attacco subìto, e senza nominare il “nemico”. La storia della musica leggera è piena di conti regolati in questo modo: oggi lo fanno soprattutto i rapper (anche tra di loro, il famoso “dissing”), ma l’esempio più emblematico è “L’avvelenata” di Francesco Guccini. In cui si dice che “tanto ci sarà sempre, lo sapete/un musico fallito, un pio, un teorete/un Bertoncelli o un prete/a sparare cazzate”: qui Bertoncelli (Riccardo, critico musicale) viene citato in maniera esplicita e sprezzante, eppure ciò non ha impedito che in seguito tra lui e Guccini sia arrivato il tempo del chiarimento e persino dell’amicizia.

Vasco Rossi a Sanremo nel 2005 (foto Anss)
Vasco Rossi a Sanremo nel 2005 (foto Anss)
Vasco Rossi a Sanremo nel 2005 (foto Anss)

Rossi e Salvalaggio invece erano troppo distanti, anzitutto generazionalmente, per trovare un punto d’incontro. Del resto quarant’anni fa non era solo l’editorialista di “Oggi” ad accusare Vasco Rossi – che più tardi finirà anche in carcere per storie di droga – di influenzare negativamente i giovani. Ma ora che Vasco è arrivato a tagliare il traguardo dei 70, di fatto già assurto alla dimensione di monumento nazionale, nessuno gli rimprovera più niente. La polemica su “Vado al massimo” è una storia vecchia, Salvalaggio non c’è più e neppure l’Italia che rappresentava. Nessuno crede ancora che basti un cantante per corrompere le giovani menti, né che valga la pena prendersela troppo per un articolo di giornale. E probabilmente è un bene. Tra le cose che sono cambiate meno c’è il festival di Sanremo, e l’ossessione italica che lo circonda. E magari questo non è un bene, ma tanto Vasco ha smesso da tempo di andarci.

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