La parola fine su una vicenda cominciata nel 1990 è arrivata. Gli esperti al lavoro sugli ultimi resti del pensionato cagliaritano Emanuele Costa hanno depositato le conclusioni a distanza di oltre tre anni dal loro avvio e hanno stabilito che le analisi sui reperti non hanno dato “risultati spendibili”. Cioè, si sono rivelate inadeguate (magari perché il materiale era rovinato, datato, o troppo ridotto nella quantità) per dimostrare l’eventuale assenza di un rapporto di causalità tra il colpo inferto alla vittima e la morte, dettaglio essenziale per arrivare revisione del processo e alla riabilitazione dell’uomo condannato quale presunto responsabile del delitto. Niente da fare: la possibilità di compiere questo ulteriore passaggio processuale è caduta. Forse per sempre.

La possibile revisione

Il tentativo era stato compiuto da Carlo Costa, residente in Toscana, figlio di Pino, il radiotecnico condannato a 12 anni quale autore dell’omicidio preterintenzionale dello zio, provocato cioè dalle sue azioni ma non voluto. Secondo la condanna definitiva l’imputato era entrato nell’appartamento di via Donizetti per mettere a segno una rapina ma l’aggressione aveva provocato nell’anziano parente (79 anni) un infarto e il conseguente decesso. Il cadavere era stato trovato il 3 febbraio 1990. Nel 1992, al termine di un processo nel quale non erano mancati colpi di scena con la comparsa di testimoni oculari e anche di un reo confesso rivelatosi bugiardo, il caso era stato chiuso.

L’imputato ha sempre negato tutto e alla sua scomparsa, nel 2004, era stato il figlio a studiare le carte e decidere di presentare nel 2018 alla Corte d’assise cagliaritana la richiesta di accedere ai reperti istologici conservati all’istituto di Medicina legale del Policlinico universitario a Monserrato per sottoporli a un’analisi servendosi della tecnologia moderna, più avanzata rispetto a quella degli anni Novanta, nella speranza di dimostrare che la morte dell’ex dipendente civile della Marina militare fosse stata provocata sì da un infarto ma slegato dall’aggressione. Dunque una disgrazia, non dovuta alla botta presa durante il tentativo di rapina. Dimostrarlo avrebbe potuto significare aprire uno spiraglio per la riabilitazione del padre.

L'aula della Corte d'assise (archivio)
L'aula della Corte d'assise (archivio)
L'aula della Corte d'assise (archivio)

La richiesta aveva originato un incidente di esecuzione in Corte d’assise attraverso il quale il presidente doveva decidere se riaprire il caso. Preliminarmente era stato necessario accertare l’eventuale presenza, nel vecchio istituto di Medicina legale di via Porcell a Cagliari dove in passato confluivano i reperti da analizzare nell’ambito delle inchieste penali, di reperti riguardanti il delitto. Il timore era che fossero stati buttati durante il trasloco al Policlinico universitario di Monserrato, e in effetti era stata trovata solo un’ampolla custodita in un locale ormai inutilizzato. In ogni caso, per non lasciare nulla di intentato, era stato deciso di eseguire una serie di analisi per capire se quanto recuperato potesse essere ancora utile, anche perché i risultati degli esami avrebbero potuto rivelarsi decisivi per ricostruire la “tempistica” degli avvenimenti: quanto tempo era passato dall'ingresso di Costa nella casa alla morte del 79enne? C’era o no un legame tra aggressione e infarto?

Aggressione e decesso

Questa la rapina per come è stata ricostruita dagli inquirenti. Aperta la porta dell’appartamento, il pensionato forse neanche aveva avuto il tempo di vedere in faccia chi aveva bussato. Tolta la catena di sicurezza, era stato colpito da un pugno sferrato da qualcuno che, subito dopo, era entrato, aveva rovistato nelle stanze e prelevato i gioielli per poi fuggire. Il proprietario era rimasto riverso su un fianco davanti all’ingresso e con un ematoma sull'occhio destro. Il colpo non era stato fatale ma, secondo l’autopsia, il cuore dell’anziano aveva ceduto per lo spavento. Era il 31 gennaio 1990. Il cadavere era stato trovato riverso sul pavimento tre giorni dopo, quando una figlia (preoccupata perché il padre, che viveva da solo, non rispondeva al telefono) era andata a controllare assieme al marito e al cognato cosa potesse essere accaduto. La casa era sottosopra, mancavano i gioielli ma nel cassetto della cucina c’erano ancora otto milioni di lire, arretrati della pensione ritirati qualche giorno prima. L’edificio si era riempito di forze dell’ordine.

Il mistero sulla morte (Archivio)
Il mistero sulla morte (Archivio)
Il mistero sulla morte (Archivio)

Nella notte la donna andando via dall’abitazione era stata avvicinata dal cugino Giuseppe, figlio del fratello del padre. Non lo vedeva da decenni, addirittura era convinta che il papà neanche conoscesse il nipote, ma questi le aveva detto di abitare in via Cimarosa (lì vicino), che lui e lo zio compravano il pane nello stesso negozio e che dunque si vedevano spesso. Era lì perché «mentre rientravo a casa avevo visto tanta gente e la polizia», aveva spiegato lui stesso in seguito ai giudici, «mi ero fermato e mi avevano raccontato quanto era accaduto».

Poco dopo era spuntata una testimone, una studentessa che abitava nell’appartamento sotto quello della vittima. La notte del delitto (individuata tra il 31 gennaio e il primo febbraio), così aveva detto agli inquirenti, aveva sentito alcuni tonfi e il rumore di mobili che venivano spostati, così era andata a controllare. Aveva socchiuso la porta d’ingresso e visto una persona scendere, ma pensando si trattasse dell’inquilino dell’ultimo piano era tornata a dormire. Quando aveva visto Pino Costa però lo aveva riconosciuto: era l’uomo che andava via quella notte.

Sotto accusa

Così il radiotecnico era finito sotto accusa e, pur proclamandosi innocente - «lo sono e continuerò a urlarlo sempre, un’altra persona ha compiuto l’omicidio», scriveva ancora nell’agosto del 2000 dal carcere di Orvieto – era stato condannato a 12 anni dalla Cassazione nell’ottobre 1992: per i giudici il movente erano i problemi finanziari e i pessimi rapporti con lo zio, da lui stesso ammessi in aula. Inutile anche la versione della madre: «Mio figlio quella notte era con me».

Uno degli articoli pubblicati dall'Unione Sarda (archivio)
Uno degli articoli pubblicati dall'Unione Sarda (archivio)
Uno degli articoli pubblicati dall'Unione Sarda (archivio)
La liberazione (Archivio)
La liberazione (Archivio)
La liberazione (Archivio)

Poi sei mesi dopo il tossicodipendente Massimo Tolu, ospite di una comunità, aveva confessato a un sacerdote di essere il vero responsabile del delitto. Aveva sostenuto di essere stato imbeccato da un amico, Omero Etzi, la cui compagna aveva lavorato come colf dal pensionato. Dopo il colpo era fuggito in Inghilterra, non sapeva che la vittima fosse morta. Voleva rimediare e lavarsi la coscienza. Tutti avevano parlato di errore giudiziario e Pino Costa era stato scarcerato il 12 marzo 1993, ma poco dopo si era scoperto che i familiari di Costa avevano pagato dieci milioni di lire per quella ammissione e che Tolu il giorno del delitto era in Gran Bretagna. Così Costa era tornato in cella. Nessuna revisione, Etzi e Tolu erano stati condannati per calunnia ed autocalunnia. L’imputato, che aveva continuato a protestarsi innocente, è morto nel 2004.

E quelle analisi? Si pensava sarebbero stati sufficienti pochi mesi, invece sono serviti tre anni. E il risultato è diverso da quello che si attendeva Carlo Costa. «Nessun esito spendibile». E nessuna richiesta di revisione del processo.

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