I pastori della Virginia o del Sud Carolina non hanno mai letto gli studi di Antonio Pigliaru (e anche volendo non sarebbe facile, dato che non è disponibile una traduzione in inglese), ma si comportano come se avessero mandato a memoria il Codice della vendetta barbaricina. Puniscono i torti allo stesso modo delle comunità dell’interno della Sardegna, difendono l’onore individuale senza ricorrere alla giustizia ufficiale. A dire il vero, non lo fanno solo i pastori: è un’inclinazione abbastanza comune alle famiglie del Sud degli Stati Uniti che discendono dagli allevatori, di origine scozzese o irlandese, che furono protagonisti della prima migrazione di massa dall’Europa verso il nuovo mondo, nel diciottesimo secolo.

Le sorprendenti analogie tra questi comportamenti e il codice barbaricino sono tra i contenuti più interessanti emersi in occasione del convegno internazionale che a Cagliari, il 25 giugno, ha celebrato i cento anni dalla nascita di Pigliaru. Il grande giurista (definizione che sta molto stretta alla sua figura di intellettuale, capace di affiancare al diritto competenze tipiche della sociologia e dell’antropologia) era nato a Orune il 17 agosto del 1922. È morto ad appena 46 anni, nel marzo del 1969, ma i suoi studi (risalenti ormai a più di 60 anni fa) conservano un’attualità assoluta, confermata da ricerche analoghe, più recenti, condotte in mezzo mondo.

Migrazione di massa

Quella sui pastori che partendo dalla Gran Bretagna colonizzarono l’America, chiamati Scots-Irish perché provenivano perlopiù dalle zone di confine tra Scozia e Inghilterra o dall’Ulster (Irlanda del Nord), è stata condotta da Pauline Grosjean, della University of New South Wales di Sidney. E arriva a conclusioni molto interessanti sui rapporti tra le norme culturali come il codice d’onore e della vendetta, e la qualità delle istituzioni formali presenti in una data comunità. In particolare, Grosjean ha verificato come la propensione a farsi giustizia da sé sia rimasta in misura elevata tra i contemporanei che discendono da quell’ondata migratoria; ma non tra tutti.

Questo fenomeno si riscontra in particolare nel Sud degli Stati Uniti, là dove si ritiene – in base a parametri consolidati – che la qualità delle istituzioni sia rimasta per lungo tempo inferiore. In tali aree, secondo le rilevazioni cui fa riferimento la docente dell’ateneo australiano, ancora nel primo scorcio del ventunesimo secolo il tasso di omicidi è il doppio della media federale, e il triplo rispetto alla maggior parte degli Stati del Nord, come New England, Ohio, Michigan e altri. La relazione con la diffusione della stirpe Scots-Irish è affermata da Grosjean in base allo scrupoloso incrocio di diversi dati, che escludono altri fattori (a partire dal tasso di istruzione o di sviluppo) come spiegazione del ricorso più frequente alla violenza. L’aumento dell’1 per cento, nella popolazione generale, della presenza di discendenti Scots-Irish, appare collegato a un aumento del tasso di omicidi addirittura del 18 per cento.

Invece negli Stati del Nord, che avrebbero goduto di una migliore qualità istituzionale, l’uso della violenza per regolare le controversie personali è andato progressivamente scemando. Naturalmente questo accade ormai anche negli Stati del Sud, ma in maniera più lenta. All’inizio del 19esimo secolo, gli Scots-Irish erano altrettanto violenti nel New England e in Virginia; poi invece la situazione si è diversificata. “La cultura dell’onore, formata da una storia di illegalità nei confini anglo-scozzesi, nell’Ulster e nelle Highlands, è prosperata solo nelle aree degli Usa dove l’ambiente istituzionale era analogamente debole”, osserva Grosjean. L’ipotesi è che questo sia accaduto perché, dove non si percepiva con forza la presenza dello Stato federale, la violenza veniva considerata una risposta più efficace al problema di disincentivare e reprimere i comportamenti scorretti: “La cultura è adattiva, e l’influenza della cultura dell’onore sta venendo meno a fronte della convergenza istituzionale tra le differenti regioni degli Stati Uniti”. Perciò, “ci si attende che rafforzare le istituzioni formali e i meccanismi di soluzione giudiziaria delle controversie riduca la prevalenza della violenza interpersonale”.

Le analogie con la Sardegna

Considerazioni che suonano molto significative anche rispetto al caso Sardegna, così ben documentato da Antonio Pigliaru. Non a caso Pauline Grosjean è stata tra gli ospiti di maggior rilievo, e più citati dagli altri relatori, in occasione del seminario dedicato allo studioso orunese; anche se il contributo della professoressa, nell’occasione, si è concentrato soprattutto sui rapporti tra quelle società rurali e il patriarcato (un altro dei suoi ambiti di studio prediletti).

La giornata è stata organizzata, col sostegno dell’Università di Cagliari, da vari docenti tra cui Alberto Bisin della New York University, Luigi Guiso dell’Einaudi Institute for Economics and Finance, Mario Macis della Johns Hopkins University e infine l’ex governatore sardo Francesco Pigliaru, docente di Economia a Cagliari e figlio di Antonio. La speranza degli organizzatori è che ora si possa finalmente colmare l’assenza di una traduzione inglese del Codice della vendetta barbaricina. Ma questo fatto non impedisce la circolazione internazionale dei fondamentali contributi che Pigliaru diede a questo tipo di studi.

Una fase della conferenza su Antonio Pigliaru a Cagliari (foto archivio L'Unione Sarda)
Una fase della conferenza su Antonio Pigliaru a Cagliari (foto archivio L'Unione Sarda)
Una fase della conferenza su Antonio Pigliaru a Cagliari (foto archivio L'Unione Sarda)

Per esempio ha suscitato grande interesse, durante il convegno, anche l’intervento di Nathan Nunn, della Harvard University, che da anni conduce studi molto approfonditi sui legami tra il pastoralismo e la cultura della vendetta e dell’onore. Il caso barbaricino e quello del Sud degli Stati Uniti appaiono come tasselli di un mosaico più ampio, che in molte parti del globo riproduce gli stessi codici violenti (ma di una violenza sempre commisurata con grande precisione all’entità dei torti subiti) nelle società che si fondano sull’allevamento del bestiame.

Ancora oggi, scrive Nunn in un suo saggio, all’interno dei gruppi etnolinguistici che storicamente vivevano della pastorizia si registrano conflitti più frequenti, aspri e duraturi (anche con delitti molto gravi). E i discendenti di quei gruppi si mostrerebbero più inclini a punire con la vendetta i comportamenti ingiusti. Una delle spiegazioni più convincenti, secondo l’economista canadese, sta nel fatto che il bene centrale di un’economia pastorale – il bestiame – è per così dire un bene “mobile” e più vulnerabile, perché può essere più facilmente rubato e meno facilmente controllato rispetto, per esempio, a una piantagione. La determinazione a difendere i propri animali (ma anche la propria reputazione di “uomo forte”) con la violenza costituisce, in questo tipo di società, il deterrente più efficace contro il crimine. Tanto che l’esercizio della vendetta diventa non più un diritto, ma un dovere sociale del singolo. Esattamente come nel codice barbaricino che Antonio Pigliaru aveva individuato con tanta precisione, ormai quasi settant’anni fa.

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