Per la scienza medica, a distanza di un secolo, resta ancora un enigma. L’encefalite letargica, detta anche “malattia del sonno”, comparve in Europa con l’irruenza di una pandemia tra il 1915 e il 1916 per poi diffondersi in tutto il mondo. Una patologia provocata da un virus mai identificato, che - dopo dieci anni, 5 milioni di contagiati e tassi di mortalità elevatissimi - così come era arrivata d’improvviso scomparve. Una piaga che alla fine della prima guerra mondiale imperversò di pari passo con la devastante febbre spagnola, e perdurò per anni dopo che quella era già sparita.

I vulcani spenti

Furono due medici a descriverne la sintomatologia, Costantin von Economo (che definì i malati vulcani spenti) e Jean-Renè Cruchet (infatti la malattia è conosciuta anche come morbo di von Economo-Cruchet), dando un nome preciso a sintomi che fino a quel momento venivano ricondotti ad altre patologie: cefalea, delirio, mutismo, apatia, sonnolenza, rigidità, spasmi muscolari, tremori, catatonia e coma profondo. Nella maggior parte dei casi i pazienti erano colpiti da letargia persistente, se svegliati si riaddormentavano subito, e i sopravvissuti riportavano tutti importanti danni neurologici, spesso irreversibili, simili a quelli dei malati di Parkinson.

Il risveglio di De Niro

Immobili, incapaci di esprimersi, ridotti a una vita vegetativa: questa era la vita dei malati cronici, di quanti cioè - prigionieri dentro un corpo che maturava con l’avanzare dell’età - erano sopravvissuti all’infezione. Una condizione raccontata quarant’anni dopo dal neurologo inglese Oliver Sacks nel libro “Risvegli” del 1973 (pubblicato in Italia nel 1987 da Adelphi), da cui fu tratto nel 1990 il film con Robin Williams e Robert De Niro. Un libro e un film tratti da una storia vera. Il dottor Sacks descrisse i pazienti americani ricoverati al Mount Carmel Hospital di New York, che da bambini o da adolescenti erano stati colpiti dall’encefalite letargica. Per decenni erano rimasti chiusi in una torre d’avorio e lui li risvegliò grazie alla somministrazione di levo-dopa, una sostanza usata nel Parkinson. L’effetto tuttavia durò solo qualche mese, il tempo in cui l’organismo ancora non era assuefatto, quindi l’inevitabile regressione.

La cura antica

In realtà una cura su vasta scala dei postumi dell’encefalite letargica veniva somministrata in Italia già negli anni Trenta per diffondersi via via in tutta Europa. Si trattava di un decotto, detto “erba della regina”, a base di atropina, alcaloide tossico estratto dall’Atropa Belladonna, una pianta conosciuta fin dall’antichità come rimedio contro gli spasmi e soprattutto per il suo potere allucinogeno. Un’erba delle streghe, così veniva considerata, come lo stramonio e la mandragora, per cui bastava sbagliare la dose perché da rimedio diventasse veleno.

Il successo del rimedio

Nelle giuste dosi veniva usata da Ivan Raev, guaritore bulgaro senza titoli accademici, che a inizio anni Venti mise a punto il rimedio per i pazienti sopravvissuti all’encefalite letargica che presentavano sintomi simili al Parkinson. Fu Elena di Savoia, regina d’Italia, a lanciare la cura su vasta scala. Originaria del Montenegro e da sempre appassionata di medicina popolare («Con lei si può parlare soltanto di medicine e ammalati», diceva Mussolini), chiamò i più grandi clinici a valutarne l’efficacia e, vista l’approvazione, fece pressione sul governo e sul marito perché la cura venisse garantita a chiunque ne avesse bisogno. Tanto fece che il decotto della regina, così venne chiamato comunemente in Italia, fu reso obbligatorio per decreto legge nell’ottobre del 1936, «per l’assistenza e la cura degli affetti da forme di parkinsonismo encefalitico».

La fornitura garantita 

Tutti i comuni d’Italia ricevevano periodicamente una fornitura, e basta andare a spulciare gli archivi, dal più piccolo paese della Sardegna alla Capitale del Regno, per trovare la voce che registra la richiesta del medicinale. La regina Elena, che aveva avviato l’apertura del primo reparto ospedaliero per postencefalitici, ebbe il merito di richiamare l’interesse della comunità scientifica e dell’opinione pubblica su una categoria d’infermi dimenticati nei cronicari come roba vecchia e inutile. Malati, grazie a lei, meritevoli di una speranza.

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