Totó Riina, 'u Curtu, morto e sepolto. Bernardo Provenzano, Binnu ‘u tratturi, passato a miglior vita. Matteo Messina Denaro, ‘U Siccu, trapassato per sempre, con segreti e misteri. La lista degli invitati si è miseramente ridotta ad un epitaffio: non sono riusciti ad inaugurare la “Caienna” dei capimafia alle pendici del Monte Arcosu.

Epitaffio

Non ce l’ha fatta nemmeno lui, l’ultimo capo dei capi. Il “signore” di Castelvetrano, dopo la più spartana delle catture in una clinica a due passi da casa, ci aveva fatto pure un pensierino: essere il primo “cliente” dell’hotel stellato del 41 bis di Uta, la città-carcere messa in piedi tra un acquitrino e le vecchie ciminiere della zona industriale di Macchiareddu. Invece, niente. Al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dovranno fare a meno dei “padrini” per eccellenza. Per spalancare, dopo più di quindici anni di ritardi, le porte del padiglione dedicato ai boss di mafia, camorra e ‘Ndrangheta, faranno ricorso a nomi meno eclatanti, ma pur sempre capaci di tessere reti criminali di ogni genere, tramandando di generazione in generazione, le più efferate tecniche della malavita organizzata.

Ministro-Magistrato

Carlo Nordio, il Magistrato fattosi Ministro della Giustizia, da mesi si agita: vorrebbe a tutti i costi schiaffare dentro quel carcere nuovo di zecca ben 92 capimafia da spedire al 41 bis, in teoria sotterrati in carcere. Teoria, appunto. Il richiamo pubblico di qualche mese fa di Nicola Gratteri, Capo della Procura di Napoli, sulla mancata apertura del carcere sardo dedicato ai capimafia non lo ha mandato giù. Da quel momento il Ministro venuto dalla “città galleggiante” si è trasformato in un “dannato”, con la fissa di quelle saracinesche chiuse in quel padiglione di massima sicurezza, piazzato alla periferia estrema di quella casa circondariale trasformata con un blitz in un carcere promiscuo: un po' disperati, un po' criminali d’alto bordo. In teoria separati da muri di cemento armato e passanti d’acciaio, ma in realtà tutti pronti ad iscriversi all’Università della criminalità organizzata, quella più efferata, con corsi dentro e soprattutto fuori dal carcere.

Nessuna data

Nei giorni scorsi il Ministro che vuole rivoluzionare la Giustizia lo ha detto senza mezzi termini: apriremo presto il padiglione del 41 bis di Uta. Date, ovviamente, non ne ha dato. I suoi predecessori, quando l’hanno fatto, si sono spiaccicati senza appello contro il muro della burocrazia, dei ritardi e della maledizione. Un riferimento più concreto, però, questa volta il Guardasigilli lo ha fornito: l’hotel a 5 stelle per i capimafia è stato collaudato il 21 febbraio scorso. Nordio non racconta frottole: tutto vero. Quando il Provveditore delle opere pubbliche per Lazio, Abruzzo e Sardegna, Vittorio Rapisarda Federico, firma il decreto di collaudo è ora di pranzo. Quello che firma, però, è un atto più che indigesto, visto il contenuto, la cronologia dei fatti e soprattutto la “parcella” finale di quell’operazione iniziata nell’anno del Signore 2009, da concludersi secondo il perentorio vincolo contrattuale dopo seicento giorni di lavori “forzati”.

15 anni di ritardi

Per traghettare in quell’agro, trasformato prima in landa industriale e poi villaggio penitenziario, i primi capimafia era stata fissata persino una data: 25 giugno 2011. Il fallimento fu prima una slavina e poi una valanga incontenibile. L’impresa saltò per aria, nel senso fallimentare del termine, così come la missione di trasformare l’intera Isola in una vera e propria “Caienna” di Stato dove riversare, come se la Sardegna fosse stata trasformata in una vera e propria discarica di malavita organizzata, quella del livello più elevato. La pena inflitta a quelle mura, rimaste abbandonate per più di quindici anni, è una gogna mediatica, con tanti Ministri in pellegrinaggio perenne, sempre con taccuini e telecamere di Stato al seguito. Falliranno miseramente, senza distinguo di colore e schieramento. Per intravvedere uno spiraglio serve un “Covid” collettivo.

L’ultima finta

È febbraio 2020, quando i lavori ripartono giusto per un attimo. Si bloccheranno subito dopo per l’obbligo di mascherine e la fuga dei contagi. Il tracollo amministrativo è tre anni dopo, quando a lavori finiti non trovano nemmeno un ingegnere disponibile a certificare quelle “suite” d’oro in mezzo alla campagna di Macchiareddu. Alla fine, ne arriva uno da Roma. Il 30 gennaio dell’anno in corso sigla il collaudo tecnico-amministrativo e sentenzia la spesa finale: per quelle celle senza finestre, tutto cemento armato e serrature, risultano spesi la bellezza di 17 milioni e 127 mila euro.

186mila euro a testa

Il calcolo è presto fatto. In quell’inferno tutto grigio e grate ci dovranno finire, salvo altri colpi di scena, ben 92 nuovi "capi dei capi”. Nessuna discriminazione per “appartenenza”, non importa se la provenienza è “Sacra corona unita”, Camorra, Mafia o ‘Ndrangheta. Basta un semplice calcolo per capire che ognuno di quegli “anfratti” è costato allo Stato la cifra esorbitante di ben 186 mila euro ad “ospite”. Roba da suite d’oro, in una landa desolata, destinata a diventare il “covo” sardo della criminalità organizzata, dentro e soprattutto fuori da quelle mura blindate.

184 41bis nell’Isola

La buona o la cattiva sorte spedirà nell’Isola, questa volta sul versante sud, dopo i 92 del carcere di Bancali a Sassari, una parte consistente dei 778 detenuti destinatari del regime del 41 bis: 242 camorristi, 195 esponenti della 'ndrangheta, 232 di Cosa Nostra siciliana, e venti della Sacra Corona Unita. In Sardegna, se mai arriveranno a Cagliari quelli preannunciati nei giorni scorsi da Nordio in persona, saranno in tutto 184 capi mafia ai quali vanno aggiunti oltre 500 detenuti di massima sicurezza, tra Massama ad Oristano e Nuchis a Tempio, tra i quali figurano “colonnelli” di primo piano, ex 41 bis “degradati” e adepti vari ancora impegnati a scalare le vette della criminalità organizzata.

Iattura criminale

Con l’operazione preannunciata nei giorni scorsi dal numero uno del Ministero della Giustizia si chiuderà il cerchio: la Sardegna sarà trasformata definitivamente in una vera e propria discarica di Stato per la peggior criminalità organizzata. Questa volta ad essere colpita da questa “iattura” criminale sarà l’area metropolitana di Cagliari e il Sud dell’Isola. Una svolta devastante con un contesto già disastrato con la microcriminalità figuriamoci con quella d’alto bordo. Un potenziale criminogeno che si scontra con uno Stato latitante e menefreghista.

Carceri scoperte

Basti pensare alla pianta organica del carcere di Uta che prevede 421 agenti, mentre, invece, ce ne sono, appena 311. Ne mancano all’appello ben 110, con tutto quel che ne consegue. Un carcere-inferno già di suo, in termini di sicurezza prima di tutto: con agenti costretti a lavorare con il patema d’animo dell’aggressione imminente e quotidiana. Qui pugni, calci e testate, sono all’ordine del giorno nelle 15 sezioni della città-carcere di Uta. Quel che è più grave è l’indifferente silenzio delle istituzioni sarde, che stanno a guardare nonostante le denunce quotidiane dei Magistrati sardi che non smettono di mettere in allarme sul rischio pericolosissimo di infiltrazioni nel già provato tessuto economico e sociale dell’Isola. Ogni anno, da anni, ogni Procuratore Generale della Sardegna, non smette di mettere in guardia sul grave rischio di infiltrazioni mafiose legate al grande “circo” interno ed esterno alle carceri legato alla criminalità organizzata.

Parenti & adepti

Un viavai di parenti stretti e collaterali, famiglie intere, accoliti e attendenti dell’organizzazione malavitosa che finiscono per insediarsi a due passi dal carcere, proprio per non cedere al distacco dal capo. A Nordio poco importa. Nemmeno ha letto le parole intime e profonde come un testamento del suo collega, il Giudice Claudio Lo Curto, uno dei magistrati più vicini a Borsellino e Falcone. Nel 2017, poco prima della sua morte, il Giudice, già Procuratore Generale reggente di Cagliari, non usò mezze parole: «Con i 41 bis arriveranno i parenti, anche cinque o sei, e poi altre persone, che saranno sempre diverse. Arriveranno dieci o quindici giorni prima e se ne andranno anche dieci giorni dopo. Il tempo necessario per monitorare il terreno e allacciare amicizie, contatti. Si faranno conoscere, ricicleranno denaro, concederanno prestiti a tassi da usura, e magari, in seguito all'impossibilità di pagamento del creditore, rileveranno l'azienda».

Testamento per memoria

«Questi capimafia – disse il Giudice – avranno la necessità di reperire appartamenti a due passi dal carcere. L'obiettivo sarà duplice, interloquire con i capi dei capi e tradurre i messaggi in azioni, compresa l'occupazione di nuovi territori. Ricevere "pizzini” dai boss dietro le sbarre, scorgendo con un solo gesto, con una mimica facciale incodificabile, messaggi che in pochi o nessuno potrà tradurre. In Sardegna - spiegava - si assisterà ad un fenomeno per molti versi simile a quello emerso all'epoca dei soggiorni obbligati, con l'invio in terre illibate di esponenti di primo piano della criminalità organizzata. Far scontare le pene lontani dal territorio di riferimento è un errore madornale».

Discarica Sardegna

Ora Nordio, il Ministro di Venezia, per risolvere i problemi a Roma, gli ultimi capimafia li scarica in Sardegna. Le celle d’oro, del resto, sono pronte. L’Isola è servita, per l’ennesima volta sarà discarica di Stato.

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