Altro che bolla di sapone e colpo mortale all'inchiesta su P3 ed eolico. Le condizioni di salute di Flavio Carboni e Pasquale Lombardi sono certamente precarie ma non incompatibili con la detenzione in carcere. E le rivelazioni del terzo arrestato (Arcangelo Martino), e quanto emerso negli ultimi mesi d'indagine, consentono di superare i dubbi generati dall'ipotesi che le intercettazioni telefoniche dei parlamentari possano essere almeno parzialmente inutilizzabili. Per questi motivi il tribunale del Riesame di Roma ha deciso di respingere nuovamente (l'aveva già fatto una prima volta nel mese di luglio) l'istanza di scarcerazione dei due quasi ottantenni accusati di essere a capo della P3, la super-loggia segreta che avrebbe cercato di condizionare organi costituzionali e realizzare speculazioni imprenditoriali.

L'ARRESTO Nell'ordinanza depositata ieri mattina, tre settimane dopo il contradditorio a porte chiuse tra le parti, il presidente del collegio giudicante Guglielmo Muntoni (con lui anche gli altri togati Franca Amadori e Fabio Mostarda) non ha cambiato idea rispetto al precedente pronunciamento, cercando di sciogliere i dubbi che la sezione feriale della Corte di Cassazione gli aveva sottoposto in occasione dell'annullamento, con rinvio, dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere, firmata dal giudice per le indagini preliminari Giovanni De Donato.

LA CONFERMA Carboni e Lombardi restano socialmente pericolosi e le loro condizioni fisiche, a dispetto dell'età e dei disturbi, non sono incompatibili col carcere. Anche se viene raccomandato all'autorità competente di predisporre un tipo di detenzione che consenta, ove necessario, di fornire in tempi ragionevoli cure, controlli ed esami.

LE ACCUSE Leggendo il dispositivo si capisce che il collegio ha sostanzialmente preso per buono l'impianto accusatorio esposto in aula dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, che coordina l'inchiesta su P3 ed eolico. Che la Procura avesse capito che i documenti depositati a luglio non sarebbero stati sufficienti lo si era intuito quando a fine ottobre altre 800 pagine di atti sono state messe a disposizione del riesame: i conti di Antonella Pau (compagna di Carboni) e di sua madre Vittoria Sirigu, gli interrogatori in carcere del terzo indagato Arcangelo Martinu, gli accertamenti della Polizia valutaria sulla vasta rete di società che gravitano attorno al faccendiere sardo, oltre alle dichiarazioni rese a verbale dal governatore Cappellacci e dal coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini, anch'essi sotto inchiesta per l'affare eolico.

LE INTERCETTAZIONI «Si può escludere che, nel caso in esame, le intercettazioni siano state disposte a carico degli indagati non tanto per registrare le loro conversazioni, quanto per captare indebitamente le conversazioni di parlamentari», scrive ancora il giudice Muntoni nella sua ordinanza, lunga 98 pagine.

«Nessun elemento consente di ritenere che via sia stata la volontà di utilizzare le intercettazioni per accertare fatti di reato ascrivibili ai parlamentari e nelle memorie difensive non si rinviene alcun concreto riferimento in tal senso». A conferma di questo il Riesame ricorda come non sia stata disposta o richiesta intercettazione delle utenze «in uso a soggetti che risultavano in rapporto sia con gli indagati che con i parlamentari, ma a questi ultimi più vicini, come la segretaria del sottosegretario Caliendo, il Credito cooperativo e la Società toscana edizioni (di Verdini), citati in relazione all'operazione di finanziamento conclusa tra Carboni e imprenditori del forlivese a proposito dell'eolico». Ne consegue «che al momento in cui sono stati emessi i decreti di autorizzazione e proroga delle intercettazioni difettava qualunque elemento per ritenere che il fine di tali intercettazioni fosse quello di acquisire elementi indiziari a carico dei parlamentari Lusetti, Cosentino, Caliendo e Dell'Utri». Lo stesso principio, spiega il tribunale, vale anche per Verdini dal momento che «a carico di questo parlamentare sono emersi indizi di reità per il reato di corruzione» solo il 2 novembre del 2009.

LA DIFESA «Non mi aspettavo nulla di diverso. In un paese dove i pubblici ministeri fanno i giudici e i giudici i pubblici ministeri e il collegio chiamato a decidere dopo l'annullamento della Cassazione è lo stesso che aveva assunto la decisione annullata, aspettare giustizia in questa fase era vano». Così l'avvocato Renato Borzone, difensore di Flavio Carboni, commenta la decisione del riesame che ha respinto la richiesta di scarcerazione del suo assistito. «D'altra parte in un paese borbonico come l' Italia - prosegue - solo questa può essere la concezione della custodia cautelare: la pena è prima del processo. Nel merito rileviamo che gli argomenti per ritenere valide le intercettazioni ignorano completamente le reprimende della Cassazione e si continua a ritenere esistente una associazione segreta nonostante le chiare risultanze liberatorie e le dichiarazioni scagionanti di Martino. Il quale è stato liberato, si badi bene, non perché ha collaborato ma perché secondo il parere della Procura sono venute meno le esigenze cautelari in modo oggettivo. Evidentemente - prosegue - le esigenze cautelari sono uguali per tutti gli indagati ma per alcuni sono più uguali degli altri. Per un processo che si fonda sulla confusione fra diritto ed etica non c'è male». Secondo il penalista, «per scardinare questo pastrocchio processuale bisognerà aspettare il classico giudice a Berlino. Che prima o poi arriva sempre».

di ANTHONY MURONI
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