Ciò che vediamo a Gaza non è guerra ma colonialismo, una storia cominciata ben prima del 7 Ottobre; l’occupazione passa dal linguaggio; criticare Israele non è antisemitismo, è antifascismo.
È la mano d’apertura della lectio magistralis tenuta nei giorni scorsi all’ex Manifattura tabacchi di Cagliari da Iain Chambers, sociologo e antropologo britannico, saggista eclettico capace di spaziare in italiano e inglese tra musica, memoria e cultura popolare, tra gli esponenti del Centro per gli Studi della Cultura Contemporanea di Birmingham, poi a lungo docente di Studi culturali e postcoloniali alla Federico II. La sua lezione - nella seconda giornata di “Nel mare di mezzo - legami mediterranei”, la conferenza euro-mediterranea per la pace di ArciSardegna - è una galoppata fra spezzoni del “Gattopardo” di Visconti e punzecchiature a Benedetto Croce, l’arte funeraria della Magna Grecia e i manoscritti altomedievali persiani che indicano il senso algebrico dello zero. E poi l’immagine dei barconi carichi di migranti e, accanto, gli schemi delle navi negriere studiati per stipare gli schiavi.
Perché criticare Israele è antifascismo?
«Parlo di fascismo nel senso che oggi, anche fra di noi, è permessa un’unica narrazione della situazione, con una chiusura a qualsiasi dibattito democratico. Da parte dei governi occidentali c’è un appoggio incondizionato allo Stato di Israele che non porta a nessuna soluzione reale. E tutti i discorsi sul piano Trump… non ci sarà una pace reale finché non ci sarà giustizia storica per i palestinesi. Si continuerà così, con i tentativi dell’Occidente di imporsi attraverso una violenza coloniale diretta o indiretta, pensiamo all’idea di Trump di fare di Gaza un resort. Il vero problema di questi discorsi è che manca la voce palestinese. Anche qui in Italia, nel dibattito sui giornali o in tv, magari vengono invitati a parlare i membri della comunità ebraica (dove finalmente c’è l’inizio di un dibattito) o persone che rappresentano Israele. Ma i palestinesi? Dare voce anche a loro sarebbe democrazia, no? ».
Un problema di antisemitismo esiste?
«Esiste e da molti secoli, come prodotto della cultura occidentale. Pensiamo alla prima crociata: molti dei partecipanti cominciarono prima in Europa uccidendo ebrei. Il vero problema è che l’antisemitismo come componente della nostra formazione di occidentali non è mai stato affrontato. Anche dopo la Shoah – che fu realizzata dai tedeschi, ma non significa che l’antisemitismo fosse solo tedesco – abbiamo scelto di non affrontare i secoli di antisemitismo che sono culminati nella Shoah ma di scaricarli sul Medio Oriente. Io pongo due domande semplici. I palestinesi hanno diritto di avere diritti? La risposta delle istituzioni occidentali è: no. Devono portare loro il peso del nostro senso di colpa per la Shoah? Ma è una domanda che non è permesso fare».
In quali termini il razzismo è strutturale a Ovest?
«Guardi come vengono trattati palestinesi e migranti».
E i due mandati di Obama?
«Superficialmente l'elezione del primo presidente afroamericano è stata importante, ma anche i neri possono far parte di una logica di riproducibilità del capitale e dell'egemonia dell'impero Usa. Non direi che ha creato un'interruzione profonda: è stata importante a livello simbolico».
Un ipotetico “fronte bianco” oggi sarebbe in crisi, con il divorzio Usa-Ue.
«Credo che ci sia un forte senso di minaccia per quella che possiamo chiamare egemonia bianca sul pianeta. Parlo del risultato di secoli di colonialismo e cioè l'idea che il mondo è nostro e spetta a noi gestirlo, spiegarlo e così via. E questo spiega anche la violenza della risposta. Quindi il punto è: come possiamo elaborare un rapporto più critico con la nostra potenza, il nostro passato?».
Lei usa spesso il concetto di egemonia.
«Per me Gramsci è centrale. E l’impatto dei lavori che abbiamo svolto nel centro di studi culturali contemporanei, parlo degli anni Settanta, è consistito nell’introdurre nel mondo anglofono il suo concetto di centralità della cultura: nulla passa – né la politica né l'economia – se non attraverso gli strumenti culturali».
Che cosa pensa delle critiche a Francesca Albanese?
«Fa parte del discorso che facevamo un istante fa: l'egemonia bianca occidentale si sente minacciata da una voce che racconta la colonialità del potere, del sapere, della stampa. Per cui è un sintomo di questa paura che la classe dirigente occidentale avverte. Non succede solo in Italia, l'amministrazione Usa l'ha colpita pesantemente, a cominciare dal fatto che non può avere un conto in banca».
Albanese non ci mette del suo con le sue parole?
«Sono cose normali quando vieni intervistato ogni giorno. Diventa facile... ».
Sbagliare?
«Mah, sbagliare non saprei, la cosa importante è il discorso che lei sta cercando di portare avanti, cioè una critica fondamentale dell’attuale assetto di potere, che crea e giustifica le atrocità in Medio Oriente».
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