P robabilmente qualcuno ricorderà il fatto, visto che è passato appena un anno (anche se è vero che quando succedono cose importanti il tempo lì per lì passa veloce, ma poi nella memoria si dilata e dodici mesi sembrano un decennio).

Joe Biden, presidente da un paio di mesi, rilasciò un’intervista George Stephanopoulos della Abc, che riferendosi all’avvelenamento di Navalny e di altri oppositori gli domandò: «Lei conosce Vladimir Putin. Pensa che sia un assassino?». «Lo penso», rispose il neopresidente. E successe un putiferio. Non solo a Mosca, dove Putin rispose sarcasticamente con una specie di “chi lo dice lo è” e poi con un mafiosissimo «gli auguro tanta salute». Il vero dibattito avvampò in Occidente, dove molti interpretarono l’uscita di Biden, il presidente più anziano nella storia degli Usa, come un segno di senescenza, la battuta di un rimbambito inciampato in una provocazione giornalistica.

Un anno e migliaia di morti dopo, vogliamo dirci che il vecchio Joe aveva ragione? E che ogni giorno passato a liquidarlo come un vegliardo allarmista è stato un regalo a un serial killer che faceva preparativi su scala industriale? Non che Biden stia aspettando riconoscimenti da questa rubrica o da questa testata, ma è un’occasione per ribadire che la libertà di parola senza il rispetto per la memoria non serve quasi nulla.

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