"Non difenderei a cinque neanche sotto tortura". A gennaio di due anni fa Eusebio di Francesco, allora allenatore della Roma e possibile nuovo tecnico del Cagliari, dopo aver incontrato i giornalisti all'Acqua Acetosa nell'ambito del seminario annuale Ussi Il calcio e chi lo racconta, fece professione di ortodossia ma poi soggiunse: "Però qualche volta bisogna farlo". L'allievo di Zeman, paladino del 4-3-3 sempre e comunque, cinque mesi dopo passò dalle parole ai fatti e grazie al cambio di modulo visse la pagina più felice della sua peraltro avara esperienza sulla panchina giallorossa. Schierò la difesa a cinque in Champions League contro il Barcellona, eliminò Messi e conquisto la semifinale della massima competizione europea per club.

A tre o a cinque? Il tema della composizione della linea difensiva nel calcio moderno è controverso. E la duttilità manifestata da Di Francesco nel caso de quo è emblematica. Solitamente il tecnico della Roma difende a quattro, nell'occasione scelse di far circondare da tre centrali di difesa (Manolas, Fazio e Juan Jesus) la coppia terribile blaugrana composta da Messi e Suarez. Fatto questo diede mandato ai due esterni - Florenzi da una parte e Kolarov dall'altra - di blindare le corsie laterali col supporto delle due mezze ali. Rivendendo oggi il film di quella partita ci si accorge però che in molti frangenti - specie nei momenti di minor pressione degli ospiti, la difesa della Roma si ricomponeva a quattro, con Kolarov che andava a fare l'esterno alto a sinistra, Juan Jesus scalava da difensore esterno, con Florenzi laterale destro e Fazio e Manolas centrali.

Questo sistema - lo potremmo definire 3+1 - era molto gradito ad Alberto Zaccheroni, che sposò il modulo nelle fortunate stagioni di Udine e anche in quelle vissute sulla panchina del Milan. In rossonero il tecnico romagnolo dovette rinunciare al suo inossidabile 3-4-3 per passare al 4-3-1-2, unico sistema di gioco che poteva esaltare un trequartista raffinato come Zvonimir Boban. Le tentò tutte Zaccheroni pur di non accettare l'evidenza dei fatti ma alla fine dovette rassegnarsi, anche dietro suggerimento di Costacurta e Albertini, a schierare il talentuoso croato alle spalle di Bierhoff e Weah. Fu scudetto ma il risentimento di Boban in relazione alle scelte del suo allenatore di allora non fu mai un mistero. Da ieri a oggi la sostanza non cambia. In tempi più recenti è stato Antonio Conte a dover mutare le sue profonde convinzioni. Arrivato alla Juventus nel 2011 come ideologo del 4-2-4, capì presto che quello non era l'abito perfetto per la Juve destinata a dominare in Italia per i successivi nove anni. In principio schierò i centrali di centrocampo in coppia (Pirlo e Marchisio) ma poi si accorse che era necessario fare spazio a Vidal. La Signora cambiò dunque pelle e si vestì del 4-3-3. Non sarebbe stata una scelta definitiva. Nella partita più difficile della stagione, a Napoli, Conte cambiò ancora. Sapeva di poter contare su un trio di difensori da leggenda e schierò contemporaneamente Barzagli, Bonucci e Chiellini. L'infortunio di Pepe lo privò di un esterno destro d'attacco di ruolo e i bianconeri adottarono un definitivo 3-5-2. Questo sì - disse Conte - è l'abito perfetto per questa squadra. E la difesa a tre, che diventa inequivocabilmente a cinque in fase di non possesso, è rimasta la più gradita all'allenatore salentino che le varianti casomai le apporta dalla cintola in su: 3-4-3 nel Chelsea che centrò Premier League ed FA Cup, 3-4-1-2, timidamente oggi, per far spazio a Eriksen, altrimenti di difficile collocazione perché sostanzialmente anarchico.

Non è masi stato un integralista, invece, il successore di Conte sulla panchina bianconera. Massimiliano Allegri - prudenza personificata (anche troppo) - presa in mano la Juventus cominciò senza stravolgere le idee del suo predecessore e solo quando fu maturo il tempo per pensare a una mutazione genetica mise in campo i bianconeri con un 4-3-1-2 a lui più gradito. Trequartista molto mobile e dinamico, punte vicine, costanti inserimenti delle mezze ali. La vera rivoluzione che permise ai bianconeri il decollo fu però sancita nell'anno in cui il tecnico livornese decise di avvalersi della contemporanea presenza in campo di Cuadrado, Dybala e Mandzukic alle spalle di Gonzalo Higuain: 4-2-3-1, tanta fantasia e spregiudicatezza senza esagerare. Gli allenatori che dimostrano duttilità e non si specchiano nell'ortodossia sono quelli più vincenti. Lo stesso Guardiola passa disinvoltamente dalla difesa a 3 a quella 3+1 pur restando preferibilmente ancorato a una linea a quattro. Tra i tecnici di massimo splendore attuale, l'unico ortodosso rimane Jurgen Klopp, campione d'Europa nel 2019 con il suo Liverpool. Avendo un tridente d'attacco composto da Salah, Firmino e Mané però l'allenatore tedesco difficilmente potrebbe comportarsi diversamente.

Altri esempi di ortodossia vengono ricordati solo grazie al personaggio che li incarnava. Zeman non ha mai tradito lo spericolato 4-3-3 che adottò ai tempi dell'effervescente Foggia. Fu un successo a Foggia come a Pescara grazie a interpreti come Rambaudi, Baiano e Signori in Puglia, oppure Caprari, Immobile, Insigne in Abruzzo ma in serie cadetta. A Roma (tanto sponda giallorossa quanto sponda biancazzurra) l'esperienza del boemo si rivelò disastrosa. Ai tempi d'oggi certe scelte, in tutta evidenza forzate, si ripetono domenicalmente. Giusto per citare un altro esempio, la bocca da fuoco Federico Chiesa è sacrificato da unico esterno destro nel 3-5-2 di Pasquale Jachini. Un altro che il sistema di gioco non lo cambia (quasi) mai.
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