Con la morte, il giorno di Santo Stefano, a 73 anni, dell'attrice Sue Lyon, scompare la donna che, a 14 anni, davanti alle cineprese guidate dal sommo regista Stanley Kubrick, incarnò uno dei personaggi letterari e cinematografici più memorabili del Novecento: Lolita. Memorabile al punto che il suo nome proprio, in realtà un nomignolo, un diminutivo per Dolores, è diventato nome comune, a designare (secondo il vocabolario Treccani) una "adolescente precoce che, anche per i suoi atteggiamenti maliziosi, già suscita desiderî sessuali, spec. in uomini maturi; ninfetta".

A inventarla, ma forse sarebbe più corretto dire evocarla, fu lo scrittore russo Vladimir Nabokov, nel romanzo omonimo. Nato a San Pietroburgo nel 1899, figlio di un politico liberale, Nabokov era espatriato al seguito della sua famiglia dopo la rivoluzione bolscevica: uno dei circa due milioni di emigrati della "prima ondata". Prima la Crimea, poi la Gran Bretagna (dove si laureò al Trinity College), quindi Berlino (dove suo padre fu assassinato), infine Parigi e, da lì, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti. Qui, dopo aver ottenuto la cittadinanza americana, concepì e scrisse in inglese (lingua che parlava e scriveva benissimo fin da ragazzo) il suo romanzo più famoso.

UN PERCORSO DI TRE PASSI - "Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta." Questo il celeberrimo incipit: un pezzo impareggiabile di bravura e di sensibilità per la materia verbale, con quel nomignolo che, vivace come la ragazzina che lo porta, saltella e rimbalza tra lingua e palato come una caramella. Con lo stesso gusto magistrale, lallando e sillabando, formava il bolo dei suoi versi il grandissimo poeta Osip Mandel'stam, che malauguratamente, a differenza del poco più giovane concittadino, non espatriò, rimanendo mortalmente invischiato nel "velluto della notte sovietica". Ma questa è un'altra storia.

Lolita, invece. Il romanzo di Nabokov fu pubblicato nel 1955 (prima edizione in Francia, per la Olympia Press, la stessa di Tropico del Cancro e Histoire d'O). E fu subito scandalo: il protagonista, il professore quarantenne Humbert Humbert, francese, intreccia una relazione con la dodicenne Lolita, americana. Di più: per farla sua, ne sposa la madre, per la quale non prova alcun interesse. Nel romanzo, raccontato in prima persona da Humbert Humbert, la seduttrice è lei.

UNA STORIA SORDIDA - "Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita".

Per la legge non ci sono dubbi: 12 anni non bastano a esprimere un consenso valido. Lolita è una vittima e il melanconico Humbert Humbert è colpevole di abusi sessuali su minore. Come è colpevole ("guilty"), d'altronde, anche Clare Quilty, il metamorfico personaggio che, dopo aver inseguito la coppia nella sua fuga on the road, dopo un incontro nella locanda "I Cacciatori incantati", porterà via al professore la ninfetta (Kubrick scelse per la parte uno straordinario Peter Sellers). Una storia sordida, insomma, che secondo uno studio Sarah Weinman pubblicato l'anno scorso (The Real Lolita) sarebbe ispirata a una vicenda veramente avvenuta: una ragazzina di 11 anni, Florence "Sally" Horner, fu rapita nel 1948 da Frank LaSalle, un uomo che spacciandosi per un agente dell'Fbi e minacciando di arrestarla per il furto di un quaderno, la costrinse ad avere rapporti sessuali.

TUTTO E IL CONTRARIO DI TUTTO - Ma Lolita, cui Nabokov ha dichiarato di aver iniziato a lavorare già negli anni '30 (e lo conferma un racconto inedito ritrovato in tempi recenti, "L'incantatore"), non è un romanzo realistico. È però un libro superlativo, un capolavoro di cui si è detto tutto e il contrario di tutto: osceno, immorale, o invece profondamente morale; una satira, anzi, un resoconto cinico. Per alcuni critici l'adulto professor Humbert sarebbe un emblema della vecchia Europa, così come la giovinezza della ragazzina incarnerebbe l'innocenza e la vitalità dell'America. Più di recente, Roberto Calasso ("La follia che viene dalle ninfe", 2005), ha riportato la ninfetta Lolita allo status di ninfa. Ma chi o cos'era, nell'antica Grecia, una ninfa? Tante cose allo stesso tempo, risponde Calasso sulla scorta degli studi che Aby Warburg condusse su questa peculiare figura del mito (studi che Nabokov, a quanto pare, conosceva bene): una «fanciulla pronta alle nozze» ma anche una «polla d'acqua» e pure il manifestarsi di «una forma della conoscenza, forse la più antica, certo la più rischiosa: la possessione». Insomma, un essere sovrumano, «quasi immortale», che può impossessarsi dei "cacciatori incantati", umani o divini, che dovessero imbattersi in lei.

UNA BAMBINA TRISTE - Ma Nabokov cosa ne pensava? Qualcosa rivelò in una memorabile intervista concessa in una Roma da "Vacanze romane" ad Alberto Arbasino (la si può leggere in "Sessanta posizioni", del 1971): «Per me, il vero senso del libro è che si tratti di un affare amoroso tra l'autore e la lingua inglese. Mi premeva soprattutto di piegare il linguaggio alle esigenze più incredibili, raggiungere effetti di una sofisticazione inaudita, da illusionista, nonostante che sia stata una vera tragedia l'aver dovuto abbandonare la mia lingua nativa, il russo, così più ricco, docile, magico, in tutto. Naturalmente le interpretazioni possibili di Lolita sono moltissime; ma io sono d'accordo con tutte». Poi, però, lo scrittore russo (esperto e appassionato anche di farfalle e di scacchi) aggiunse un'altra chiave di lettura: Lolita è «la storia di una bambina triste in un mondo tristissimo». E Humbert Humbert? «A tanta gente il mio protagonista fa pietà. A me, niente».
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