“An Eye On The World” è il nuovo disco del cantautore romano Paolo Preite. Dieci brani che raccontano le sue più intime riflessioni sull’uomo, fautore di scelte importanti che possono rivelarsi determinanti e talvolta compromissorie. La società in cui l’uomo semina i propri frutti è smarrita e fortemente provata dalle guerre e dalla disinformazione che lentamente annienta lo spirito. Un declino che si materializza tra le mani come fosse cenere, ma al contempo accende la speranza e lo stimolo per una nuova rinascita.

Sono questi gli elementi che impreziosiscono “An Eye On The World”, un disco versatile, multiculturale, dalle influenze cantautorati classiche, con sfumature soul, rock, ma anche pregno di influenze italiane, danesi, americane, slovacche, ceche, serbe e jazz. Grandi ospiti stranieri hanno impreziosito i brani: Kenny Aronoff; batterista di Jerry Lee Lewis e tanti altri. Michael Jerome; che ha suonato la batteria con Blind Boys Of Alabama, Better Than Ezra, K.D. Lang, Taj Mahal, Charlie Musselwhite etc. Bob Malone, che ha suonato con Bruce Springsteen, Bob Seger, Jackson Browne, Billy Gibbons, e Alan Toussaint. Ondřej Pivec, tastierista ceco all'opera con Gregory Porter, Wu-Tang Clan, Billy Cobham. Il violoncello di Jane Scarpantoni.

Il disco si apre con “It’s Not Over Yet”, un brano dal sapore antico, impregnato da suggestive atmosfere anni 60, che sembrano provenire direttamente da un 45 giri ricoperto di polvere che gira sul piatto, perduto nel tempo e nella memoria. Chitarre acustiche inframmezzate da tastiere e batteria sincopata richiamano atmosfere autunnali. Le foglie cadono, ricoprono la strada ormai vuota. Il cielo è ricoperto da nuvole cariche di pioggia e il vento soffia forte. Sarebbe questo l’incipit perfetto per descrivere “Wandering”, una perfetta colonna sonora per un film americano, possibilmente ambientato a New York negli anni 80, in cui due persone si incontrano dopo tanto tempo e si abbracciano. Speranza, rinascita ma soprattutto voglia di ricostruire qualcosa a distanza di tanto tempo.

Sicuramente lei indosserebbe un lungo cappotto nero, avrebbe i capelli biondi e un cappello di lana a cilindro nero. Lui invece indosserebbe un giubbotto di pelle marrone, un paio di jeans e stivaletti a punta con ghirigori ai lati. L’inquadratura che immortalerebbe la scena dovrebbe certamente partire dall’alto, magari dal Bronx, inquadrando in dettaglio le finestre socchiuse dei palazzi con le facciate in mattone, i cassonetti esterni che colmi di spazzatura e le strade umide. Il disco continua con le sonorità ombrose di “Memories and Dust”, che rievocano a tratti gli anni 90 e quel sano malessere che impregnava il sound della scena di Seattle, opportunamente spezzato dagli archi che velatamente soffiano venti di serenità e quiete, dissipando dalla mente le possibili urla che hanno impreziosito il sopracitato genere.

“Una piccola differenza” è certamente un omaggio al cantautorato degli anni 70, ai grandi maestri. Un brano che riporta alla mente l’inchiostro tra le dita, il calore delle antiche taverne e gli appunti lasciati sul tavolo. Un passaggio temporale di qualche decade per finire direttamente nell’Inghilterra Brit-pop/postpunk di fine anni 90, inizio 2000. “Don’t stop dreaming” ci racconta un viaggio temporale incalzante, pregiato dalla storia musicale che ha rappresentato quella parte d’Europa, aprendo conseguentemente la strada ad “I will meet you again”, un delicato episodio acustico in cui la voce apre i propri canali comunicativi con un delicatissimo arpeggio in sottofondo. Superata “Cant’ find a reason”, con la sua timbrica vocale decisa e le sue dinamiche compatte, e “Never ending war”, un classico impreziosito di modernità, è il turno di “An eye on the world”, in cui viene definitivamente sdoganato il confine linguistico e stilistico musicale.

La lingua italiana e l’inglese si destreggiano egregiamente su due registri equilibrati: “cieli confusi e stelle spezzate”, recita il testo, ripercorrendo terreni sonori che ricordano particolari sonorità già tracciati negli anni 70. Una miscela che unisce funky e un cantato che a tratti si avvicina al rap. Testi visionari, colori primari e confini che delimitano “umana pietà” e “ricordo di civiltà” in un “mondo spesso immondo”, come recita il testo. Se “Wandering” potrebbe essere la perfetta colonna sonora per un film ambientato a New York negli anni 80, “In Your Eyes”, figurerebbe benissimo come sigla di chiusura per lo stesso ipotetico film sopracitato. I protagonisti, in questo caso, si allontanerebbero lungo una strada - dopo un abbraccio che avrebbe fortemente intaccato i loro ricordi, i loro occhi e i loro sentimenti - tra i rottami in fumo, mentre la notte lentamente ricoprirebbe la città.

Angelo Barraco
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