Numero uno della comunicazione, grande sperimentatore, saggista e docente universitario, Carlo Freccero sarà domani a Cagliari (ore 20, Centro culturale Il Ghetto), ospite del festival Pazza Idea.

Dirigente televisivo e consigliere Rai, Freccero parlerà in particolare (con lui il giornalista Alberto Urgu) della nuova golden age della fiction tv, fenomeno di cui da anni, rintracciando il modello nelle serie americane, descrive le straordinarie potenzialità di analisi e narrazione della realtà.

Data la capacità di leggere in anticipo i gusti del pubblico, di esplorare tendenze e linguaggi mediatici, bisogna quindi credere a Freccero anche quando teorizza che solo la classica tribuna politica, quella degli anni '60, risolverà la crisi dei talk.

"Nell'ultimo cda Rai ho proposto di ripristinare quel format", dice rivelando per la prima volta pubblicamente questa iniziativa. "Permette con una serie di 10 e 15 domande e un minutaggio preciso di esplicitare il pensiero, senza discussioni animate e confuse".

Quindi ritiene che la tv continuerà a giocare un ruolo fondamentale nella campagna elettorale per le politiche 2018?

"La televisione avrà un ruolo molto importante. Continuerà a dare una visibilità maggiore di quella garantita dai nuovi mezzi di comunicazione. Non è più l'unica fonte di informazione, tuttavia. Stavolta bisognerà fare molta attenzione alla rete che smonterà, amplificherà o distruggerà ciò che la tv trasmette".

A proposito del rapporto tra new media e canali di comunicazione tradizionali, la fiction tv si è mostrata prodotto straordinario di questa dialettica. Può raccontare il successo del genere?

"Negli anni '90 c’è stata una rivoluzione che l'avvento del digitale e la nascita delle televisioni a pagamento hanno reso ancora più importante. Come accaduto a suo tempo per il cinema, il telefilm ha fondato un proprio linguaggio e si è reso autonomo. Forma nuova e sperimentale, la fiction tv è così diventata più creativa e stimolante della maggior parte della produzione cinematografica corrente. Le ha imposto addirittura una sua caratteristica: la serialità. Il cinema oggi è tutto un sequel, un prequel, un remake. Nella dialettica tra modello e imitazione, i rapporti si sono dunque ribaltati: il telefilm è diventato il prototipo a cui il film deve ispirarsi. Non si trascuri poi il ruolo-matrice dei videogame: il nome originale di 'Trono di spade' non a caso è 'Game of thrones'.'House of cards' inizia nella messa in onda italiana con la pubblicità dell'omonimo videogioco".

La rivoluzione formale ha travolto anche l'immaginario delle serie tv tradizionali.

"Opposto all'ottimismo del telefilm americano degli anni '80, nella fiction contemporanea si tinge di nero, rappresenta le paure inconsce. Accade così che l'eroe positivo degli anni d'oro di Hollywood, artefice del sogno americano, sia sostituito dall'antieroe. Penso a Dexter dell'omonima serie o ai protagonisti di 'House of cards'".

Come mai questa rivoluzione è avvenuta negli Usa?

"Qui il pensiero critico ha sempre abitato nella dimensione della fiction: nei romanzi o nei film di Hollywood si esprimeva il disagio che il mito del sogno americano tendeva a occultare. Questa prospettiva di analisi è quindi migrata dal grande schermo alle serie tv. Spaccato della cultura americana, offrono una lettura più profonda di qualsiasi trattato di sociologia. Rivelano il mister Hyde nascosto dietro l'aspetto bonario del buon cittadino e patriota".

Il modello proposto è diseducativo, si dirà.

"Si educa soprattutto denunciando i modelli negativi, prendendone quindi le distanze. La cifra del nuovo telefilm è proprio la complicazione dell'intreccio che è dominato dalla figura dell'antieroe. Il protagonista, che spesso è un leader politico, non ha doti carismatiche. Frank Underwood si rivolge al suo pubblico parlando in macchina, mettendolo al corrente dei suoi segreti. Le sue armi sono il machiavellismo, l'astuzia, l'assenza di scrupoli. Non si ferma davanti al delitto. Invece che essere punito, tuttavia, diventa presidente degli Stati Uniti".

Underwood è immorale, dunque. Perché l'accusa di molestie, che per effetto dello scandalo Weinstein ha colpito Kevin Spacey, il suo interprete, dovrebbe fermare la fiction?

"Non capisco, davvero. Questa vicenda, prima che vera, ha radici proprio nella scrittura del personaggio".

Weinstein e gli abusi sulle attrici. Perché il caso è stato letto come evento nuovo? In Italia ci si era nel frattempo dimenticati di Vallettopoli? Eppure la fiction "1992" aveva così ben rappresentato gli intrecci tra sesso e potere...

"Concordo. C'è tutto un filone di fiction che mette in scena il potere. La cosa sorprendente è che una volta il protagonista della fiction ci si opponeva, oggi invece lotta disperatamente per accaparrarselo. La fiction per questo è più vera del vero: ha la capacità di catturare il senso di cui la realtà, che si presenta nella vita e nella comunicazione in maniera frazionata, sembra invece priva. Ribadendo la natura di finzione nei titoli di coda ("ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale"), può inoltre dire ciò che l'informazione spesso è costretta a tacere".

Chiudiamo con una riflessione positiva. Qual è la chiave del trionfo di tanti cantanti sardi (Marco Carta, Valerio Scanu, Moses) nei talent show televisivi?

"Sono ligure. La mia regione, come la Sardegna, nonostante abbia prodotto tanti cantanti, è stata spesso trascurata. Credo che la ragione del successo possa essere ricercata nell'ambiente, nel contesto di origine, nell'ansia di rivincita. Essere considerati periferici è condizione che, unita al talento, genera tensione creativa e maggiore forza nella rappresentazione".
© Riproduzione riservata