Ha lasciato la sua Cagliari perché inseguiva un sogno: diventare giornalista. Ci è riuscita: Alessandra Loche, 41 anni, segue per L'Eco di Bergamo la cronaca giudiziaria. "E ho anche l'incarico", dice sorridendo, "di occuparmi delle iniziative della Lega nella zona". Quel sogno coronato è diventato, negli ultimi tempi, un incubo. Perché ora si trova a lavorare nell'epicentro dell'epidemia di covid-19, la Bergamasca, appunto. Lei ha toccato con mano la tragedia che si è consumata (e continua a consumarsi in quella parte della Lombardia). "Vivo a Seriate, a pochi chilometri da Bergamo e ho visto con i miei occhi quello che il resto d'Italia ha potuto osservare solo in parte attraverso i video e le immagini".

Quei camion dell'esercito che trasportavano le salme delle persone stroncate dalla malattia, per esempio.

"Vicino a casa mia, c'è la chiesa di San Giuseppe: è stata utilizzata per ospitare le bare dei deceduti. Ogni volta che uscivo con il mio cane era impossibile non provare un tuffo al cuore nel vedere i mezzi che portavano, senza soluzione di continuità, quelle bare all'interno. Nei giorni in cui la crisi è esplosa, il forno crematorio lavorava ventiquattro al giorno".

Toccare con mano significa anche conoscere persone che hanno avuto a che fare con quella malattia.

"In zona non c'è stata una famiglia che non abbia avuto un malato, Io stessa conosco tante persone che si sono ammalate".

La paura era diventata qualcosa di palpabile.

"Mi è capitato di chiamare un amico per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa perché era isolamento, come tutti. Mi ha detto che era a casa con la polmonite ma non sapeva se aveva o meno il covid-19 perché non gli era stato fatto il tampone. Purtroppo temo che i numeri ufficiali siano molto più bassi di quelli reali. Tanta gente è morta a casa senza che fosse diagnostica la malattia".

Purtroppo c'è anche gli ospedali hanno registrato un numero incredibile di morti.

"E anche lì sono accadute storie incredibili. Mi è capitato di chiamare un amico quando ho saputo che il padre era stato ricoverato. Era pomeriggio: quando mi ha risposto, mi ha detto che aveva appena ricevuto una telefonata dall'ospedale per annunciargli che il padre era morto durante la notte. Vi rendete conto? Ha saputo della morte del padre mezza giornata dopo il suo decesso".

Medici insensibili? "No, è esattamente il contrario. Ora vengono definiti eroi. Da queste parti, abbiamo toccato con mano il loro eroismo: terminato il loro turno di lavoro, tutti si fermavano in ospedale per chiamare i parenti dei ricoverati e raccontare loro come stavano andando le cose. In queste situazioni, è tremendo non poter parlare con i propri cari: i medici, per quanto possibile, cercavano di colmare questa lacuna".

Una situazione incredibile, insostenibile. Con tanti responsabili, probabilmente: all'inizio, l'epidemia è stata sottovalutata.

"Il 23 febbraio, due giorni dopo la scoperta del focolaio di Codogno, sono stati registrati due casi nell'ospedale di Alzano Lombardo. Non c'è stato alcun allarme: in fondo, i numeri erano piccoli. E la vita è continuata come se nulla fosse: la gente andava nei bar anche se venivano chiusi alle 18, addirittura ci si spostava verso le località sciistiche. Ogni giorno, andavo in Tribunale per lavoro: gli addetti alla sicurezza indossavano la mascherina e venivano guardati in maniera strana. Quasi venivano presi in giro per queste precauzioni".

Poi l'epidemia è esplosa. Che cosa ricordare di quei momenti.

"Un silenzio irreale, interrotto regolarmente solo dalle sirene delle ambulanze. A rendere peggiori la situazione la sensazione di essere stati abbandonati: sembrava quasi che il resto dell'Italia non fosse interessato a quello che stava accadendo in questa zona".

Naturalmente non era così.

"Certo. Intanto qui, le persone si sono rimboccate le maniche. E, nel giro di otto giorni, è stato realizzato un ospedale. E tutto questo quando ancora in tantissimi non sono riusciti a piangere i propri morti".

Nel momento di maggior crisi, l'occhio di Alessandra Loche era anche verso la sua Sardegna.

"Attraverso i social network vedevo che nell'Isola sembrava che si sottovalutasse questa epidemia. E mi sono preoccupata. Ma ho seguito quello che accadeva nella mia terra anche per un'altra ragione: mio fratello fa parte dello staff militare dell'esercito inviato nel Sassarese per dare una mano nella zona dove c'erano più problemi".

E ora? "Penso soltanto a continuare il mio lavoro perché ho una voglia incredibile di raccontare tutte le storie che ho conosciuto. E, naturalmente, sogno di tornare presto a Cagliari. Per riabbracciare la mia famiglia e i miei amici. E per fare un tuffo nel mio Poetto".
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