I primi sintomi erano quelli di un'influenza. Janet aveva mal di testa, dolori muscolari e il naso che colava come durante certi malanni stagionali del freddo inverno di Birmingham. Era agosto, però, e il caldo di quell'estate mal si conciliava con la diagnosi, il che fu evidente ai medici soprattutto quando sul corpo della paziente cominciarono a comparire tanti piccoli puntini rossi e poi le pustole. Eruzione cutanea da farmaci, fu il parere di un dermatologo. Varicella, disse un altro specialista. Diagnosi sbagliate, spaventosamente lontane da ciò che stava accadendo realmente. Il pomeriggio del 20 agosto 1978 la paziente -oramai ricoperta di vescicole anche sul viso e tra le dita delle mani e dei piedi - fu ricoverata nell'ospedale degli infetti di Catherine-de-Barnes e la diagnosi, poi confermata dal laboratorio che esaminò il liquido delle pustole, gettò nel panico non solo la donna e la sua famiglia ma tutto il Paese. Si trattava di variola major. Vaiolo, quello del tipo più grave.

Janet Parker, 40 anni, aveva un marito e un lavoro che l'appassionava. Era la fotografa del dipartimento di anatomia della facoltà di medicina dell'Università di Birmingham, ci era arrivata dopo anni di servizio nella polizia dove il suo obiettivo inquadrava scene del crimine, cadaveri, e dettagli buoni per le indagini. Adesso, per la verità, il materiale di cui si occupava non era poi tanto diverso. Diversa era la sua missione: lavorava per il progresso scientifico e di questo andava molto orgogliosa. Una vita piena, le giornate divise tra la famiglia, le visite agli anziani genitori e la camera oscura del dipartimento che stava esattamente sopra il laboratorio di microbiologia dove da anni il professor Henry Bedson conduceva studi sul virus del vaiolo bianco, variante che l'Organizzazione mondiale della sanità considerava una minaccia per il successo dell'eradicazione della malattia. Perché, va detto, nel 1978 il vaiolo era considerato oramai sconfitto. La guerra per debellare le infezioni era infatti cominciata nel 1967, quando l'Oms annunciò una campagna di vaccinazioni in tutto il mondo, e l'ultimo contagio naturale, il caso di un giovane cuoco di un ospedale, venne registrato nel 1977 in Somalia. Sicché, quando da Birmingham arrivarono cattive notizie, l'Organizzazione mondiale della sanità - sul punto di dichiarare ufficialmente l'eradicazione della malattia ch'era stata il flagello più temibile per l'umanità intera - dovette fare marcia indietro. Quell'annuncio arrivò a maggio del 1980.

Janet Parker morì l'11 settembre 1978, un mese dopo il ricovero in ospedale. Una settimana prima, il 5 settembre, era morto il padre: un attacco cardiaco, si concluse, ma l'uomo era in quarantena e l'autopsia non fu eseguita per paura del contagio. Il 6 settembre un altro tragico evento legato alla storia di Janet. Il professor Henry Bedson, capo del dipartimento di microbiologia dell'Università di Birmingham, anche lui in quarantena, si suicidò tagliandosi la gola nella sua casa di Cockthorpe Close. Lasciò una lettera che solo in parte faceva trasparire i sensi di colpa che dovevano divorarlo: "Mi dispiace di aver perso la fiducia che tanti miei amici e colleghi avevano riposto in me e nel mio lavoro. Mi rendo conto che questo atto è l'ultima cosa sensata che posso fare per poter permettere loro di ottenere un po' di pace". Perché aveva scritto queste parole se ancora l'inchiesta ufficiale sulle cause del contagio dentro l'Università non era nemmeno iniziata? Il fatto è che Bedson sapeva bene che il suo laboratorio non era dotato di tutte le misure di sicurezza necessarie in un centro che manipola materiale altamente pericoloso come i virus, e se lui e i suoi collaboratori erano protetti dal vaccino (che veniva ripetuto ogni due anni), così - nonostante le disposizioni che imponevano la profilassi sul personale non solo del laboratorio ma anche delle strutture vicine - non era stato per Janet Parker il cui ultimo richiamo risaliva al 1966. Il suo corpo, trasportato con una scorta della polizia dall'ospedale degli infetti al centro delle cremazioni, venne cremato. I genitori, il marito, i colleghi e centinaia di persone che erano venuti in contatto con lei nell'ultimo mese prima della comparsa dei sintomi erano stati messi in quarantena e in città fu riaperta una massiccia campagna di vaccinazione. Fu vaccinata anche la madre di Janet, che aveva contratto il vaiolo nella forma più leggera ed è poi guarita. Birmingham sarebbe stata dichiarata ufficialmente indenne dal vaiolo il 16 ottobre 1978, ma per cinque anni ancora il reparto in cui la donna era morta restò sigillato. L'inchiesta accertò che Janet Parker era stata infettata da un ceppo del virus del vaiolo chiamato Abid (dal nome di un bambino pakistano di 3 anni morto nel 1970), esaminato nel laboratorio di microbiologia del professor Bedson tra il 24 e il 25 luglio 1978. Proprio in quei giorni la donna era stata più del solito impegnata a riordinare materiale fotografico nella stanza del dipartimento che stava sopra il laboratorio. Come sia avvenuto esattamente il contagio non è stato accertato. I periti hanno individuato tre possibilità: il contatto personale, il contatto con materiale contaminato, il passaggio del virus da un piano all'altro lungo le condotte di aerazione. Da allora, per disposizione dell'Oms tutte le riserve di virus del vaiolo conservate a scopo di studio ovunque nel mondo sono state in parte distrutte e in parte trasferite in due soli laboratori coi più alti standard di sicurezza: il Cdc di Atlanta, negli Stati Uniti, e il centro di ricerca statale di virologia Vector di Koltsovo, in Russia. «Non si può però escludere che esistano altri depositi di virus, in violazione a quanto prescritto dall'Organizzazione mondiale della sanità», è scritto nel sito dell'Istituto superiore di Sanità. Vero. Ma questa è un'altra storia.
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