La partecipazione di Joe Biden, nella sua qualità di Presidente degli Stati Uniti d’America, al Consiglio Europeo del 25 marzo ultimo scorso, non ha mancato di suscitare, quanto meno nell’immediato, un certo acceso interesse. Certamente più che giustificato e comprensibile, ma anche sicuramente esagerato e poco compreso sul piano geo-politico complessivamente considerato e stimato. Le dichiarazioni entusiaste, e per alcuni versi fastidiosamente “striscianti”, rilasciate a caldo da Charles Michel, Presidente del Consiglio dell’Unione Europea, hanno dato l’idea di dissolversi nella vacuità dei loro concetti, siccome totalmente disancorate, sul piano programmatico strettamente inteso, e nella loro generica articolazione linguistica di circostanza, dalla solennità e dalla rilevanza del contesto di riferimento. Intendiamoci: incontrovertibilmente si è trattato, quanto meno sul piano paradigmatico formale, di una partecipazione di impatto coinvolgente. Tuttavia, quella stessa partecipazione, con buona pace di chi ha voluto salutarla, e forse incautamente, con cieco e acritico entusiasmo, ha inteso porsi come sintomatica di un intervenuto cambiamento di ideologia e di sistema. E non solo a livello squisitamente interno.

Tanto per cominciare, perché era finalizzata a significare e interpretare concretamente il superamento delle dinamiche neo-nazionaliste autoreferenziali di Donald Trump e del suo “trumpismo” (perlomeno sul piano intenzionale soggettivo) quali sintomi mortificatori del relazionismo transatlantico. Quindi, perché, sotto differente profilo, quella ricordata “partecipazione”, a ben considerare, si è quasi posta come un imperativo “atto di presenza” diretto all’affermazione e alla sottile imposizione di una dinamica strategica volta al conseguimento di una nuova forma più evoluta, e probabilmente più gentile, di “primazia” quale espressione “rinnovata”, ma non troppo, della propaganda dell’“America first” non solo nei confronti del Vecchio Continente, ma anche, ed evidentemente, nei confronti dei competitor più pericolosi, ossia, nei confronti di Russia e Cina.

Insomma, per poter valutare attentamente il significato profondo di questa “incursione” statunitense al Consiglio Europeo, addirittura nella sua massima espressione soggettiva, e prima ancora di gioirne asetticamente, sarebbe utile interrogarsi su cosa sia diventata, all’attualità, l’Europa, rectius l’Unione Europea e, soprattutto, quale sia il riflesso percepitone all’esterno nell’ambito di un codice, per certi versi indecifrabile, di un contesto globalizzato del quale, all’evidenza, il Vecchio Continente non sembra possedere le chiavi interpretative per non essere stato in grado di procacciarsele sul terreno del relazionismo internazionale. Inutile negarlo: ci troviamo davanti ad un paradosso e siamo facile preda, siccome innegabilmente “cugini poveri”, di chi ha tutto l’interesse a perseguire, finalisticamente parlando, gli obiettivi stringenti di una politica estera incisiva e a re-impadronirsi della propria egemonia. Ebbene: in una situazione di tal fatta, quale ruolo intende assumere l’Unione Europea? Vuole essere un attore, e quindi un interlocutore privilegiato e competitivo tra Oriente e Occidente, siccome autonomo e politicamente strutturato, oppure vuole continuare a risiedere nello scacchiere internazionale all’ombra dello storico “alleato”? Con quale patrimonio identitario l’Unione Europea, con tutta la sua complessa articolazione compositiva, intende, da ora in avanti, presentarsi al mondo? L’interesse, comunque gradito, di Joe Biden nei confronti del Vecchio Continente ha tutto il sapore di un campanello d’allarme che suona proprio nel momento più critico: è giunto il tempo del cambiamento e dell’assunzione delle responsabilità. Lo sforzo cooperativo tra Europa e Stati Uniti, se compiutamente tale intende essere, impone la contemporanea presenza di “soggetti” alternativamente “sovrani” nella loro declinazione istituzionale, ma mai reciprocamente, e/o sproporzionalmente, “sottoposti” sul piano decisionale. Sebbene nell’immaginario collettivo continui a sopravvivere una certa concezione di Europa, tuttavia, la sua declinazione politico-istituzionale, l’Unione Europea, da troppi anni appare in grave declino nel suo porsi come entità geopolitica nel sempre più complesso scacchiere internazionale che impone ai singoli “pezzi” di operare grandi scelte tra Oriente e Occidente.

L’Europa, proprio in quella giornata del 25 marzo appena trascorso, è apparsa, invero, politicamente disorientata, totalmente priva di un concetto compiuto di stessa. Questa circostanza la pone decisamente in una condizione di minorità strumentale che la rende facile preda di “colonizzazioni” alternative strategiche e tattiche. Per questo non si può fare a meno di sorridere quando si leggono le dichiarazioni a caldo di Charles Michel sussumibili, concettualmente, in una duplice articolazione significativa: si sarebbe trattato di un “vertice eccezionale”; sarebbe stata l’occasione per “sentire la visione del presidente statunitense sulla futura collaborazione” tra Unione Europea e Stati Uniti d’America in funzione della salvaguardia di un ordine democratico che si ritrova a dover fronteggiare “minacce interne ed esterne” e richiede una presa di posizione forte da parte dei due alleati. Apparentemente nulla quaestio: ma la criticità della riflessione risiede tutta in quell’amaro “sentire la visione del presidente statunitense”, perché evidentemente non esiste, allo stato, una “visione europea” capace di imporsi come dominante e/o comunque come apprezzabile. L’Europa, che è in sé e per sé considerata una entità concettualmente distinta rispetto all’Unione formalmente intesa, resta, ancora oggi, e come sottolineato da più parti autorevoli, un “progetto incompiuto” per non esservi un accordo condiviso unanimemente sul programma attuativo, e sull’indirizzo di stampo socialista-riformista che dovrebbe ispirarlo. L’Unione Europea non può ridursi ad essere classificata attraverso descrizioni stereotipate che non ne riflettono la complessità ma continuano, anzi, a degradarla ad entità non meglio ancora definita sul piano politico-istituzionale. Il processo di integrazione europea, nel suo continuo divenire e trasformarsi, deve tornare al centro del dibattito politico se si vuole realmente intraprendere un percorso di rinnovata cooperazione continentale ed extra-continentale. Essere “global player” nel circuito internazionale impone, con buona pace dei sovranisti di destra, una più stringente condivisione di sovranità, e impone, altresì, e parimenti, con buona pace dei pauperisti di sinistra, di accantonare le dinamiche della disordinata accoglienza indiscriminata per divenire non solo centro multiculturale e multietnico protetto, ma anche per divenire, certo gradualmente, circuito geo-fisico identitario globalizzato nei confronti delle generazioni che verranno.

Purtroppo l’attuale declino economico è solo il pallido riflesso del declino politico. Un Occidente realmente incisivo nasce dall’idea di una Unione Europea concettualmente e strutturalmente più definita che allo stato, e lo dico con amarezza essendo una europeista convinta, esiste solo sul piano monetario. Oggi come oggi, la questione è se l’Unione Europea saprà porsi come interlocutore credibile degli Usa, soprattutto nella gestione dell’emergenza sanitaria giacché dalla buona riuscita di essa soltanto dipende la conseguente ripresa economica.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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