“Non possiamo aspettare la fine della pandemia per riparare i danni e pensare al futuro. Porremo le basi per un’Unione Europea della Salute più forte, in cui i 27 Paesi possano lavorare insieme per individuare le minacce, prepararsi e avviare una risposta collettiva” in forza di tre principi cardine: quello della prevenzione, da attuare mediante un piano specifico per affrontare le crisi sanitarie; quello della sorveglianza, da conseguire mediante un sistema integrato “infra-unionale”; e quello della comunicazione, da conseguire attraverso l’esaltazione dell’ulteriore principio di trasparenza degli indicatori dei sistemi sanitari. Queste, perlomeno, sono state le belle parole pronunciate da Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, in occasione del Vertice Mondiale sulla Salute del 25 ottobre 2020.

In buona sostanza, e con accettabile verosimiglianza, il proposito annunciato sembrerebbe quello, timidamente lodevole sul piano degli intenti, ma forse troppo blando sul piano maggiormente significativo degli effetti pratici, di creare un sistema articolato di “risposta” comune e comunitaria alla crisi presente ed a quelle che potenzialmente potrebbero venire nel futuro prossimo vicino e lontano. L’obiettivo dichiarato, riassunto in poche parole, vorrebbe essere pertanto quello di “proteggere la salute di tutti i cittadini europei” dal momento che la pandemia da coronavirus ha chiaramente messo in luce tutte le molteplici e gravi carenze di un macro-sistema multilaterale e disomogeneo che ha finora difettato nell’attribuire alla Compagine Europea competenze specifiche in materia sanitaria proprio in un momento, quale quello attuale, in cui la “sorte” di ciascuno Stato Membro pare destinata ad incidere su quella di tutti gli altri innescando imprevedibili reazioni a catena che già nel momento del loro subitaneo e tendenzialmente silente manifestarsi riflettono di per se stesse la tardività delle risposte approntande.

Come da più parti rilevato, infatti, la pandemia ha evidenziato non solo la necessità di una organizzazione direzionale tecnica e strumentale maggiore all’interno dell’Eurozona, ma anche il bisogno di apprestare sistemi sanitari nazionali più forti e capaci di reagire agli imprevisti. Tutto bello e tutto opportuno certamente se fossimo nel mondo delle idee. Ma nel contesto generale contingente – e qui, perdonate l’espressione, vedrete cascare l’asino - sarà piuttosto interessante capire se ed in quale misura, a mio modestissimo avviso, i diversi Stati Membri saranno disposti a cedere, rinunciandovi definitivamente, in termini strettissimi di competenza “bilaterale” e “multidirezionale” in materia sanitaria al fine di consentire all’Unione una capacità di intervento maggiormente intensa e proficua. Personalmente, e anche a voler tutto concedere, ritengo comunque di non poter essere fiduciosa al riguardo giacché, oggi come oggi, la materia sanitaria, pure nella sua delicatezza intrinseca ed estrinseca, resta di esclusiva competenza dei vari governi nazionali, i quali, dal canto loro, se per un verso si rivelano assolutamente favorevoli ad accedere al “sostegno assistito” della Commissione Europea per puro opportunismo politico e ben conoscendo i propri rispettivi limiti, per altro verso, non appaiono altrettanto disponibili nel decidere una volta per tutte di rinunciare sic et simpliciter alle loro prerogative specifiche sebbene pietosamente esercitate in alcuni casi. E questo purtroppo costituisce, ed ha sempre costituito, il grande limite del Progetto Europeo.

Si tratta all’evidenza di un vicolo cieco, di uno stereotipo mentale dal quale è necessario slegarsi in fretta se ci si vuole seriamente salvare da esiti catastrofici che potrebbero segnare irrimediabilmente il nostro avvenire. La via maestra da seguire sarebbe, come di fatto dovrebbe essere, solo una. Ma solo un gruppo motivato di “Visionari” del Progetto Europeo saprebbe perseguirla. E, al momento, purtroppo, all’orizzonte non si vede nessuno. Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, possiamo fingere comodamente di ignorare la soluzione, ma continueremo sempre e comunque a restare impantanati. Insomma, se vogliamo costruire una vera e propria “Unione della Salute”, credo che, come da taluni suggerito, sia doveroso rinunciare ad ogni forma di acido travaso nazionalistico e procedere decisamente nel senso di una modifica consapevole dei Trattati dell’Unione che consenta di ridisegnare l’intero sistema normativo in materia di sanità in quanto il voler persistere, anche da parte delle Istituzioni Europee, in un tossico atteggiamento di ossequioso rispetto delle competenze dei singoli Stati nel settore della salute, significa, più o meno implicitamente, ostinarsi nel voler vanificare e/o peggio ostacolare, ogni tentativo di ricondurre ad unità il sistema. Tanto più allorquando si considerino le innegabili differenze esistenti tra i diversi sistemi sanitari nazionali, i quali sono gestiti e strutturati secondo modalità talmente eterogenee da costituire una Babele incontrollata ed incontrollabile che rischia di far implodere l’intera compagine comune. Vietato, dunque, limitarsi a lambire gli angusti confini del problema. Si acchiappi piuttosto il Toro per le corna e si proceda perché: se non ora quando? Questo è il momento del coraggio perché abbiamo bisogno di un autentico Progetto Europeo che valorizzi l’Unione non solo sul piano monetario, ma anche su quello politico e sanitario come più volte ho avuto modo di rilevare. Anche perché occorre ridurre grandemente, se non proprio eliminare, le inaccettabili diseguaglianze sanitarie esistenti proprio a livello europeo. Occorre ritrovare, al proposito, un rinnovato principio di solidarietà sociale idoneo ad armonizzare, come più volte ha voluto sottolineare, sebbene con differenti espressioni, il nostro Papa Francesco, l’ulteriore principio fondamentale di responsabilità tanto collettiva quanto individuale perché, oramai è chiaro: “Nessuno si salva da solo”.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
© Riproduzione riservata