È stato di recente commemorato, al Lazzaretto di Cagliari, Antonio Simon Mossa, grande personalità del sardismo indipendentista e uomo poliedrico e polivalente: architetto, aiuto regista e cineoperatore di guerra, saggista, musicista e soprattutto ideologo di una visione quasi sindacale della condizione dei sardi che invariabilmente preferiva alle altre.

Così Fiorenzo Serra attribuì il suo allontanamento dal cinema al fatto che quest'ultimo tendeva ad eludere, più che a raccontare, le problematiche sociali dei sardi.

Vico Mossa rivelò come, nel suo lavoro di architetto, Simon Mossa tendeva a progettare alberghi che potessero trasformarsi in residenze o scuole per giovani disoccupati. Giampiero Marras (suo assistente per lunghi anni) ci ha raccontato di come Simon Mossa rifiutasse i simboli e le ideologie del novecento se non li percepiva utili alla rinascita culturale e sociale della Sardegna.

Insomma: era un intellettuale rivoluzionario Antonio Simon Mossa il cui pensiero è molto attuale; specie oggi che il cantiere federalista europeo rischia definitivamente di arenarsi riportando le tante minoranze etniche e linguistiche che aveva studiato (bretoni, occitani, baschi, slesvig, lami ecc..) nella angusta dimensione della subalternità nazionale; specie oggi che i leaders di alcune comunità ribelli, come i catalani, si trovano in carcere o in esilio e, pur eletti, vengono estromessi dal parlamento europeo.

Non parliamo dell'Italia ove, ormai quotidianamente, si celebra il teatro dell'assurdo.

Mentre la UE bacchetta il nostro Stato e minaccia di aprire una procedura di infrazione per il suo gigantesco debito, gli italiani, che quel debito sono chiamati a sopportare (93.000 euro a famiglia) non fiatano. Anzi, sono guardati con sospetto, rei di contribuire all'enorme evasione fiscale, effettuata dai soliti noti, che lo Stato non persegue. Assistiamo quindi ad una singolare forma di assistenzialismo biunivoco: la politica -con la spesa pubblica- assiste i cittadini (per farsi procrastinare al potere) e questi ultimi assistono -col debito- lo Stato.

La fiscalità, poi, nasconde un ulteriore, grande inganno. Essa non è infatti solo esazione di tributi, sono anche risorse derivanti dalla gestione del patrimonio dello Stato, che in Italia è davvero immenso. Abbiamo tesori artistici, architettonici e culturali inestimabili, beni pubblici e demaniali di ogni genere, inclusi 8000 km di coste dalla cui concessione riscuotiamo somme risibili. Lo Stato infatti non si cura di amministrare degnamente il suo patrimonio; più facile tassare i cittadini, che non si lamentano, o continuare a indebitarsi; tanto i debiti non si pagheranno mai.

Fuorviante anche l'ancoraggio etico-giuridico della vessazione tributaria: il principio di uguaglianza. Come se calare una gabbia fiscale pressoché omogenea su comunità e territori drammaticamente diversi, anche nel proprio grado di sviluppo, come Sardegna e Lombardia, sia esercizio di uguaglianza e non di ipocrisia. Così come avviene con la regola del 34% degli investimenti pubblici destinati al sud. Quota peraltro destinata ad assottigliarsi ulteriormente, visti i tassi di spopolamento specie delle aree interne.

Dunque quale peggior rapporto (interamente basato sulla reciproca sfiducia) tra cittadino e potere, comunità e Stato?

Zagrebelsky, in un recente articolo, incoraggiava a resistere all'arbitrio e all'abuso dello Stato. "Perfino la disobbedienza alle leggi - diceva - nei casi estremi in cui sono in questione valori ultimi come la vita, la libertà, la dignità delle persone, è una virtù repubblicana quando significa rifiuto di convalidare l'ingiustizia con la propria ubbidienza".

Recuperiamo quindi il messaggio risilienziale di Simon Mossa per come ce lo ha trasmesso Eliseo Spiga. Evitiamo di sciorinare come un mantra gli slogans di un sardismo rivendicazionista ormai ridotto a sottoprodotto della politica nazionale.

E affrettiamoci a porre rimedio a ciò che Simon Mossa «aveva visto, con i suoi occhi, ed in luoghi diversi».

Cioè le tendenze al genocidio culturale, e non solo, dei piccoli popoli incorporati nei grandi Stati europei, con l'emigrazione di massa, l'annichilimento delle culture autoctone, la liquidazione delle attività economiche locali e l'imposizione di modelli di sviluppo, applicati alle campagne e rispondenti agli interessi dei grandi centri urbani.

ALDO BERLINGUER

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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