La democrazia in America esiste ancora, ancora di più resiste ed è ben lontana dal voler crollare sotto gli strali maledetti di un ex presidente che, dominato da evidenti spinte emotive narcisistiche, non prova vergogna alcuna nel rivelarsi come totalmente incapace di accettare la sconfitta. Dopo il voto per le presidenziali del 3 novembre scorso, il destino politico degli Stati Uniti e del neo eletto presidente Joe Biden dipenderanno unicamente dalla capacità di quest’ultimo di restituire il senso dell’unità ad un Paese visceralmente diviso sul piano sociale prima ancora che su quello politico che pure ne costituisce il riflesso condizionato, nonché radicalmente confuso sugli obiettivi da focalizzare e conseguire.

Nel contesto del circo mediatico montato ad arte dallo “show man” Donald, comprendere il sentimento profondo degli americani è impresa ardua. Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto dalla stragrande maggioranza dei commentatori, io non sono affatto convinta che esistano due Americhe banalmente riconducibili alle espressioni soggettive della dialettica della Destra Conservatrice e Nazionalista oppure alle narrazioni riformiste e innovatrici della Sinistra Progressista. Esiste invece un unico grande e disparato Popolo Americano che necessita di essere ricondotto ad unità attraverso una spinta ideologica forte e sicura finalisticamente orientata alla ricomposizione del rapporto fiduciario nel processo democratico e nelle istituzioni.

Al proposito, non sarà forse superfluo rammentare che Winston Churchill, paradossalmente, si fece lecito di definire la “democrazia” come la “peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che (erano) state sperimentate fino (ad allora)”. Tutto sommato, pertanto, seppure più nel male che nel bene, anche il mandato di “The Big Donald”, il “Tycoon”, condotto e gestito all’insegna del grido “America First”, delle divisioni, della contrapposizione alle scelte del passato recente, dell’affermazione della legge del più forte, è stato espressione di Democrazia, di una Democrazia morbosa e anomala anche per essere sopraggiunta successivamente alla duplice presidenza di Barack Obama quale primo presidente di colore, ma pur sempre Democrazia. Del resto con l’espressione “democrazia” non si è mai inteso necessariamente significare, e/o meglio rappresentare, la vittoria del migliore. Per questo motivo, anche oggi, l’esito strenuamente combattuto, ma in qualche modo scontato, di queste elezioni presidenziali ha contribuito a consegnare al mondo intero una sorta di testamento programmatico. E proprio quell’esito, che ha visto Joe Biden prevalere sul piano del voto popolare, e non solo, ci dice chiaramente come il Paese interpreta se stesso e cosa si attende dai propri governanti nel prossimo futuro. Così, se Donald Trump, presidente divisivo e autoritario, può, allo stato, ben essere concepito alla stregua di “Colui che fu” una insidiosissima anomalia “necessaria” di funzionamento del sistema, l’inceppamento strutturale utile probabilmente a riprogrammarlo (bisogna sempre perdersi per poi ritrovarsi), Joe Biden, viceversa, con il suo saper essere “trasversale” ed “inclusivo” rappresenta la comoda conformità a quel medesimo sistema e si caratterizza fin d’ora per le sue qualità di “Uomo di Transizione” portavoce dell’affermazione decisa e convinta della dignità e dell’uguaglianza di tutta l’umanità su temi cruciali quali la cura per gli emarginati e i poveri, l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati e dei rifugiati, ma anche per la acquisita consapevolezza politica concretatasi nella certezza che la ricostruzione del modello americano per eccellenza, quello cui tutto il mondo guardava con ammirazione, costituisca una impresa decisamente ardua soprattutto per la contestuale resistenza di un duplice ordine di circostanze che paiono essersi radicalizzate nella società statunitense: innanzitutto, gli Stati Uniti costituiscono l’esempio tipico di un Paese ove la fiducia nelle istituzioni, già scalfita e corrosa, non ha tratto certo giovamento dall’incapacità manifestata dalle autorità preposte nel cercare di tenere indenne la popolazione dagli effetti devastanti della pandemia sia in ambito sanitario sia in ambito economico; secondariamente, gli stessi statunitensi si sono sempre qualificati e contraddistinti per la loro fede incrollabile nell’individualismo, esasperato, per giunta, negli ultimi trascorsi quattro anni, dalla presidenza di Trump, ossia dalla presidenza di Colui che dell’individualismo ha fatto un preciso stile di vita, il cosiddetto “Trumpismo” quale appunto esaltazione dell’ “io” contro il “prossimo” “vicino” e “lontano”, che nonostante tutto, benché non per troppo tempo io credo, continuerà a sopravvivere al suo stravagante ideatore e sarà uno degli ostacoli più insidiosi da superare per il suo successore, ideologo, viceversa, dell’America dell’accoglienza e della fratellanza, il quale, dal canto suo, pur tuttavia, e nonostante le differenze di indirizzo politico, nel corso della sua lunga ed eccellente esperienza ha sempre saputo creare una efficace linea di dialogo anche con la parte repubblicana, come ben testimonia l’amicizia personale e istituzionale con l’indimenticato John McCain, denominato, e non a caso, “maverick”, il “ribelle”.

Le masse, psicologicamente condizionate e soggiogate dalla propaganda populista del “Tycoon”, resteranno, da oggi in avanti, prive del loro mentore e si ritroveranno ad essere disorientate e confuse sicché a governarle saranno, con buona verosimiglianza, il dubbio e il sospetto. Joe Biden avrà l’amaro compito di soffocare quei dubbi e quei sospetti che, in fondo, rappresentano la chiave di lettura della crisi del mondo contingente, della crisi dell’idea stessa di società. Sarà solo il tempo a raccontarci se il nuovo presidente avrà successo nella sua missione di “riconversione” del processo democratico. Ma, anche a voler prescindere dalle innumerevoli considerazioni che si possono articolare sul futuro della comunità statunitense, ora che il democratico Joe Biden è il presidente eletto degli Stati Uniti, è arrivato il momento di domandarsi cosa significhi per l’Europa questa vittoria e in che modo inciderà sull’intera Eurozona. È arrivato il momento di domandarsi se, diversamente dal suo predecessore, Biden sarà capace di articolare una politica estera efficace partendo dalla definizione di una vera e propria “politica cinese” mai presa in considerazione dal suo predecessore. Interrogativi tutt’altro che scontati se solo si considerano le repentine modificazioni che si vanno via via incardinando nell’ambito degli assetti geopolitici planetari. Il neo-liberismo sembra voler cedere il passo ad una nuovissima e peculiare “sintesi” narrativa incardinata sul concepimento della politica come impulso stimolante di cambiamento idoneo finalmente ad orientare lo sviluppo economico verso i diritti umani complessivamente considerati, verso una idea di società fondata sui diritti della persona.

Per ciò stesso, e con buona verosimiglianza, sono propensa a ritenere che l'amministrazione di Biden si ritroverà costretta, forse anche suo malgrado, a procedere sulla via della riaffermazione convinta e necessaria delle alleanze tradizionali, magari “rivisitandole” in chiave progressista rispetto all’impostazione del passato trascorso e recente per renderle funzionali alla gestione dei conflitti del XXI secolo. Nondimeno, quella stessa amministrazione dovrà doverosamente conservare un approccio meno isolazionista rispetto a quello di Trump, concedendo maggiore priorità agli alleati e ai compagni democratici che già costituiscono da tempo l’elemento di centralità, forse dimenticato, della politica estera americana. Sarà un processo lungo che non potrà avvenire dall’oggi al domani giacché necessiterà di un preliminare percorso di assestamento “interno” al Paese e, anche per questo, l’articolazione dei rapporti commerciali tra gli stessi Stati Uniti e l’Unione Europea non potrà che rivelarsi complessa dal momento che sarà piuttosto difficile ottenere “hic et nunc” la cessazione della guerra dei dazi, quanto meno nell’immediato, se non a prezzo di pericolosi disordini ideologici.

Non meno complessa, infine, si presenta la ridefinizione di una “politica cinese” obiettiva e sistematicamente orientata al controllo. Se con Trump Pechino poteva ben sperare in un rapido declino del potere statunitense, non altrettanto può sperare di ottenere sotto la presidenza di Biden, il quale, dal canto suo, lungi dal rivelarsi maggiormente accondiscendente, orienterà invece le sue energie sulla via della recrudescenza delle dinamiche dialettiche finora utilizzate ma solo per aprire una breccia di dialogo motivato con le autorità cinesi e tentare la via di una tiepida collaborazione finalisticamente orientata perfino ad incidere sul piano del rispetto dei diritti umani. L’impresa è evidentemente colossale, ma il neo eletto presidente si presenta per essere l’Uomo Giusto nel Contesto Giusto.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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