La prima donna non bianca candidata alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Se suona poco immediato e un po' tortuoso il record segnato da Kamala Harris martedì, quando Joe Biden l'ha indicata per completare il ticket per la conquista della Casa Bianca, non è colpa dell'autorevole senatrice californiana. Il punto è che nel recentissimo passato politico americano ci sono già stati un non bianco (Barack Obama) e una donna (Hillary Clinton) candidati direttamente alla presidenza. E il primo ha anche vinto.

E quanto alla vicepresidenza, ci sono due precedenti che sottraggono a Kamala Harris il traguardo, più semplice e immediato, di prima donna candidata. Sono quelli di Geraldine Ferraro e Sarah Palin: due politiche diversissime tra loro, una democratica neokennedyana e una turboconservatrice stile Tea Party, accomunate solo dal genere, dall'esito sfortunato della loro campagna e dall'essere bianche.

È appunto quest'ultimo dettaglio a lasciare libera per Harris, nella casella dei record, l'etichetta di prima aspirante vicepresidente "non bianca". Qualcuno, per rendere più immediato l'effetto novità, l'ha definita la prima afroamericana in corsa come numero 2 alla Casa Bianca, ma come molte semplificazioni anche questa è sbagliata: nella biografia di Kamala Harris l'Africa non c'è, visto che suo padre era un economista giamaicano (e quindi un americano caraibico) e sua madre un'endocrinologa indiana di etnia Tamil.

Di sicuro possiamo dire che la senatrice della California non è la prima donna - nella politica statunitense come in moltissimi altri campi - a ottenere un ruolo che la fa stare un passo indietro rispetto a un uomo. Ed è poco, per chi come Hillary Clinton celebrò i propri quasi 66 milioni di voti come una galassia di crepe nel soffitto di cristallo che impedisce alle donne di raggiungere il potere massimo, pur lasciandoglielo vedere. O è comunque troppo per chi condivide il disinibito maschilismo di Donald Trump, che spiega: Biden "si è legato le mani" scegliendo una donna come vice perché "ora molti uomini si sentiranno insultati".

Per carità, tutto è possibile e quindi può anche darsi che un segmento dell'elettorato non si senta rassicurato dalla candidatura alla presidenza di un anziano Wasp e malsopporti per la seconda carica una donna inquadrabile nelle cosiddette minoranze etniche. Ma con tutta evidenza si tratta di elettori che comunque non voterebbero democratico. E poi Biden non ha indicato Harris solo per coprirsi sulla questione di genere (e far dimenticare l'ombra di alcuni approcci disinvolti che a qualcuno col senno di poi sono parsi simili a molestie). La senatrice liberal è preziosa soprattutto per equilibrare a sinistra il ticket dell'Asinello con la sua spiccata (ma non estremista) sensibilità per le questioni sociali. In ogni caso il suo primo compito, come quello di ogni candidato alla vicepresidenza, non è tanto aiutare l'aspirante presidente quanto evitare di metterlo in difficoltà con gaffe o vecchi scheletri che spuntano dagli armadi. È un po' il ruolo che a loro tempo hanno svolto le due donne che finora hanno corso per la vicepresidenza. Per capire come andò nel primo caso dobbiamo risalire al 1984. Sono i giorni in cui in Sardegna si cerca di costruire la presidenza di Mario Melis che a De Mita sembra un mezzo terrorista, tutta Italia si sganascia per la beffa delle teste di Modigliani e Buscetta svela ai giudici la struttura della mafia.

Geraldine Ferraro, una maestra elementare che si è laureata in legge per poi intraprendere un'ottima carriera da magistrata dell'accusa e infine si è tuffata in politica dalla parte dei più discriminati, è chiamata ad aiutare l'assalto alla Casa Bianca reaganiana del potente ma freddo dignitario democratico Walter Mondale. E lei farà il suo dovere, fino in fondo: ha talento, è empatica, sa strappare applausi e consensi. Durante una campagna elettorale durissima rischia di scivolare su una controversa questione fiscale ma poi ne esce a testa alta. Certo, le origini italiane sono un'incognita esplosiva per chi fa politica nell'America degli anni Ottanta, dove l'associazione Belpaese-mafia è qualcosa di immediato e pavloviano. Ma l'ombra (infondata) dei rapporti fra il marito di Geraldine e Cosa Nostra spunterà solo anni dopo, per stroncare la sua corsa al seggio senatoriale della California. In quella campagna elettorale dell'84 no, la mafia è un argomento che resta nel cassetto e anzi al Washington Hilton, dove i due candidati presidenti e i loro vice incontrano per una cena bipartisan 2.500 italoamericani, Ferraro è di gran lunga la più applaudita. Ma non basterà a ribaltare le sorti di una contesa segnata: un comandante in capo in carica, carismatico e amato, contro l'ex vice di Carter, il presidente dell'era contemporanea meno entusiasmante dopo Ford. Una fettina della sconfitta si potrebbe intestare a Ferraro perché nel confronto in tv contro il vicepresidente George Bush senior non brilla, ma sarebbe folle attribuire alla sua performance il disastroso risultato di Mondale, che perde in tutti gli Stati tranne il suo Minnesota, dove prevale su Reagan per un misero 0,2%.

E allo stesso modo non saranno i limiti di Sarah Palin a determinare il ko repubblicano contro il lanciatissimo Barack Obama e il suo rassicurante vice Joe Biden. Di sicuro la sua accoppiata con John McCain più che equilibrata sembra improbabile: lui veterano ed eroe di guerra, repubblicano istituzionale e non insensibile alle questioni sociali, lei trumpiana ante litteram, schierata un po' più a destra della destra in tutte le questioni sensibili, dall'aborto alle unioni gay. La sua è una militanza reazionaria da redneck, come dicono gli americani per sfottere i bifolchi con il collo arrossato dal sole che batte sui campi. E non è chiaro se a darle un improvvido, ulteriore tocco provinciale sia più il fatto di non aver messo piede fuori dagli Usa fino all'elezione a governatrice dell'Alaska oppure il video trash in cui abbatte una renna e poi la finisce sgozzandola. Ma di fatto non saranno i suoi scivoloni a far perdere McCain. Insomma, come nei giorni scorsi ricordava "Il Post" citando Dan Balz, da sempre il principale requisito per un candidato vice presidente resta non danneggiare il presidente. Eppure a giudicare dai primissimi giorni della sua campagna elettorale, Kamala Harris sembra determinata a dare un contributo più concreto. Giovedì l'Ansa sottolineava che nelle prime 24 ore dall'annuncio della scelta della vice, Biden ha raccolto la somma record di 26 milioni di dollari, con 150 mila persone che hanno donato per la prima volta. Secondo un sondaggio Reuters/Ipsos quasi nove democratici su dieci approvano la scelta, e la senatrice è più popolare di Biden tra le donne (60% contro il 53%), tra gli americani sotto i 35 anni (62% a 60%) e anche tra alcuni repubblicani (25% a 20%).

In un certo senso è interessante anche notare quanto gli attacchi che Trump le rivolge siano nel segno della delegittimazione isterica più che del contrasto politico: dopo averle dato della "pazza", in questi giorni il presidente sta avallando una infondata teoria della ineleggibilità della senatrice. Per legge chi corre per la Casa Bianca deve essere nato in America. Harris è nata a Oakland, in California, ma secondo i suoi detrattori essere nata da due emigrati equivarrebbe (non si sa perché) ad essere nati all'estero. Non è la prima volta che i cosiddetti birther sposano una teoria del complotto in chiave anti-Dem: sulla Fox in molti si consumarono a sostenere che Obama (nato alle Hawaii) in realtà era venuto alla luce in Kenya. All'epoca bastò che l'allora presidente pubblicasse il proprio atto di nascita e poi ci facesse sopra una risata, stavolta forse non servirà nemmeno questo. Con il tandem democratico dato da Nate Silver (provvisoriamente, ricordiamolo sempre) al 71% delle chance di vittoria, più che inseguire complottismi anagrafici Kamala Harris farà bene a continuare a essere se stessa e non farsi dettare l'agenda.

D'altra parte Biden si candida abbastanza esplicitamente ad essere un "one term president", un presidente da un solo mandato: alle presidenziali del 2024 avrà 81 anni e finora il presidente più anziano che gli americani abbiano eletto è Trump, che il giorno dell'insediamento ne aveva 70 (fino ad allora il record era di Reagan, eletto a 69). Naturalmente da oggi ad allora possono succedere miliardi di cose, ma per un ipotetico dopo Biden e con un mandato vicepresidenziale alle spalle, a quel punto Kamala Harris avrebbe le carte in regola per provare a conquistare un secondo primato. Stavolta molto più immediato da comprendere: la prima donna presidente degli Stati Uniti.
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