Se n'è andato solo dopo aver avuto la certezza che in tanti continueranno le sue battaglie, e forse non è un caso. Dopo aver visto le strade di Washington dipinte con la scritta "Black lives matter", le vite dei neri contano. Ma certo John Lewis non avrebbe mai desiderato che la sua morte, avvenuta il 17 luglio a 80 anni, aprisse una polemica proprio all'interno del movimento per i diritti civili, che ora si divide sull'ipotesi di dare il suo nome a un ponte sul fiume Alabama. Figura storica delle lotte per i neri americani, stretto collaboratore di Martin Luther King e strenuo sostenitore dell'azione non violenta, Lewis su quel ponte fu protagonista di una vicenda passata alla storia della democrazia Usa. Un caso per certi versi simile (seppure con esito meno drammatico) a quello della morte di George Floyd, il 46enne afroamericano ucciso il 25 maggio da un poliziotto di Minneapolis, che per quasi nove minuti gli ha schiacciato col ginocchio il collo, fino a soffocarlo. Il 7 marzo 1965, nella cittadina di Selma, Lewis subì la frattura del cranio e altre gravissime ferite per i colpi di manganello della polizia. Ma riuscì a scampare alla morte, nel pestaggio attuato dagli agenti contro circa 600 persone che marciavano per difendere il diritto di voto della popolazione nera. Allora non esistevano gli smartphone come quelli che, nel maggio scorso, hanno ripreso gli ultimi attimi di vita di George Floyd, e il suo rantolo agghiacciante ("I can't breathe", non respiro).

Filmati che hanno provocato un'ondata di manifestazioni antirazziste partite dagli Stati Uniti e dilagate in tutto il mondo. Uno choc culturale che sta avendo un forte impatto su molti aspetti della vita collettiva: si pensi al dibattito sull'opportunità di rimuovere le statue di personaggi che, alla luce della sensibilità attuale, presentano troppe ombre nella loro storia. Ma anche senza telefoni cellulari, quel giorno a Selma i fotografi riuscirono a immortalare la violenza delle forze dell'ordine contro i manifestanti. L'immagine più famosa di quella domenica di sangue (fu appunto chiamata "Bloody Sunday") mostra uno "state trooper" che si accanisce contro un uomo inginocchiato a terra, le mani sulla testa, in posizione puramente difensiva. Quell'uomo, che temette di morire e poi finì a lungo in ospedale prima di riprendersi, era John Lewis. E la foto del suo pestaggio, pur senza raggiungere la diffusione virale permessa oggi dai social media, provocò anche allora aspri sentimenti di indignazione nella popolazione degli Stati Uniti. Quella mattina del 1965 i manifestanti guidati da Lewis intendevano marciare da Selma fino a Montgomery, capitale dello Stato dell'Alabama, uno di quelli in cui era più marcata la discriminazione razziale. Contavano di arrivare davanti al palazzo del governatore per reclamare il pieno diritto di voto della popolazione nera, e la fine della segregazione. È quasi un'amara ironia della sorte il fatto che la carica della polizia statale paramilitare colse il corteo mentre passava sul ponte intitolato a Edmund Pettus. Chi era costui? Un alto ufficiale dell'esercito della Confederazione degli Stati del Sud all'epoca della guerra civile, quella che vide tra le sue cause (non l'unica) l'opposizione dei sudisti al superamento del sistema schiavista. Quel che è peggio, Pettus dopo la guerra militò con ruoli altrettanto importanti nel Ku Klux Klan, l'organizzazione segreta paraterroristica basata sul principio della supremazia dei bianchi. Già da alcuni anni in Alabama molte voci hanno chiesto di cambiare il nome a quel ponte, per non continuare a onorare la memoria di un personaggio dichiaratamente razzista. Se n'è parlato molto dopo il cinquantesimo anniversario della marcia di Selma, nel 2015, quando l'allora presidente Usa Barack Obama attraversò il ponte tenendo per mano John Lewis (diventato nel frattempo un importante membro del Congresso). Ora, subito dopo la morte di Lewis, è nato un movimento d'opinione che chiede di intitolare a lui quell'arco di cemento e acciaio sul fiume, cancellando il nome di Pettus che campeggia sull'architrave. Michael Starr Hopkins ha lanciato la proposta con una petizione online che ha rapidamente ottenuto centinaia di migliaia di firme. Lui è un attivista di rilievo del partito democratico americano, lo stesso di John Lewis. Ed è un nero, come John Lewis. Ma è nero e democratico anche Prince Chestnut, uno dei principali oppositori all'intitolazione del ponte a Lewis. Giudice del tribunale di Selma e membro della Camera dei rappresentanti dell'Alabama, Chestnut ha definito l'ipotesi "inappropriata". Non certo per difendere la memoria di Edmund Pettus, ma per non offendere quella dei tanti militanti locali che parteciparono alla marcia del 1965. Alcuni di loro erano impegnati da anni nella difesa dei diritti dei neri. "Quel giorno sul ponte - ha detto Chestnut - c'erano molte persone di Selma e dell'Alabama. John è stato un uomo grande e nobile, ma in quell'occasione non era solo". È sulle stesse posizioni un altro politico democratico e di pelle nera, il sindaco di Selma Darrio Melton: "È offensivo - ha detto - che la volontà dei cittadini di Selma di cambiare il nome al ponte non sia stata mai presa in considerazione negli ultimi cinque anni. Concentrarsi ora su un solo nome, anziché su come superare le disuguaglianze razziali, significa tradire l'eredità di Lewis". Contraria all'intitolazione anche Lynda Lowery, attivista del Black People Movement, che a soli 15 anni fu tra i manifestanti picchiati dalla polizia nella marcia di Selma. Secondo Prince Chestnut, il ponte dovrebbe essere ribattezzato Bloody Sunday Bridge. A Selma è nato un gruppo per sostenere il diritto della popolazione locale di decidere sulla questione, e ha scelto di chiamarsi - con un malcelato accento polemico - "Selma matters", Selma conta. Per John Lewis, il "Gandhi nero" paladino della non violenza, del dialogo e dell'inclusione, sarebbe decisamente troppo. Probabilmente non ha mai pensato di dare il suo nome al Pettus Bridge, ma se anche l'avesse fatto non avrebbe certo accettato di vedere il Black People diviso sulla sua figura. È un'altra beffarda ironia della sorte: Lewis su quel ponte ha quasi perso la vita per dare ai neri il diritto di votare, quindi di contare nelle decisioni pubbliche. "Black votes matter", si sarebbe potuto dire allora. Non avrebbe mai sopportato che, nel suo nome, qualcuno potesse negare voce in capitolo anche a un solo cittadino nero. Soprattutto se è un cittadino di Selma, Alabama.

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